Note sulla dissoluzione dell’immaginario alpino

La sfida che il riscaldamento globale ci pone non è solo politica e tecnologica, ma anche culturale. Come gestire e ricostruire un immaginario che si dissolve a causa dei suoi effetti?

Alberi abbattuti in montagna.
Matteo de Mayda - There's no calm after the storm (filtro duotone aggiunto da me)

There’s no calm after the storm, non c’è quiete dopo la tempesta. S’intitola così il libro con cui il fotografo Matteo de Mayda ha esplorato le conseguenze del passaggio della tempesta Vaia sulle Alpi Italiane.

Abbattutosi tra il 26 e il 30 ottobre del 2018 in alcune valli a cavallo tra Trentino Alto Adige, Veneto e Friuli Venezia Giulia, questo sistema di bassa pressione è stato responsabile dell’abbattimento di 14 milioni di alberi e la devastazione di 42500 chilometri quadrati di foresta.

Un evento climatico di enormi proporzioni, capace di modificare in modo radicale l’orografia e il paesaggio delle zone colpite al punto che, così mi ha raccontato un volontario dei vigili del fuoco della Val di Fiemme, nei mesi successivi alla tempesta sono stati moltissimi gli interventi effettuati per recuperare anziani smarriti nei boschi.

Vaia ne aveva cambiato il profilo tanto profondamente che, pur avendoli frequentati per tutta la loro vita, quelle persone si trovavano a tal punto prive di punti di riferimento da finire per perdere l’orientamento e non essere più capaci di ritrovare la strada di casa.

La quiete impossibile a cui fa riferimento de Mayda nel titolo del suo lavoro risiede perciò nello sconquasso dei macrocosmi naturali e dei microcosmi personali di cui Vaia è stata responsabile, mettendoci così di fronte alla potenza e alla dimensione cosmica del riscaldamento globale e dei suoi effetti.

Effetti che, in particolar modo sulle Alpi, non si limitano alla trasformazione traumatica del paesaggio ma si prolungano anche nella sua dimensione simbolica, verso quello che è il regno dell’immaginario.

Per valutare l’impatto di Vaia sull’ambiente, scrive in fatti de Mayda in una didascalia del suo lavoro, sono state usate cartoline d’epoca che, sovrapposte alle immagini degli stessi paesaggi dopo il transito della tempesta, hanno permesso di comprendere l’entità del danno forestale da essa causato.

Seppure utilizzate come cartine al tornasole, le cartoline sono tutt’altro che un supporto neutro o privo di connotazione. Esse sono artefatti visivi legati a doppio filo al processo di turistificazione di cui le Alpi sono state oggetto nel corso dell’Ottocento e del Novecento.

Sorta di aggiornamento all’epoca della riproducibilità tecnica del souvenir setteccentesco, le cartoline costruiscono lo sguardo dello spettatore sullo spazio alpino a partire dall’immaginario con cui le Alpi sono state costruite fin dal momento in cui i primi intellettuali illuministi le hanno scoperte.

L’atto di sovrapporle al panorama devastato da Vaia va perciò oltre la semplice verifica del danno forestale. Esso mostra il modo in cui, sottoposto alle pressioni generate dagli effetti del riscaldamento globale, a dissolversi non sia soltanto il paesaggio alpino ma anche l’immaginario che ne ha abilitato la costruzione come oggetto fisico e visivo.

Vaia è solo dei tanti possibili esempi di questa dinamica. L’estinzione dei ghiacciai e il progressivo innalzarsi della quota di innevamento - fenomeni connessi all’aumento delle temperature che, sulle Alpi, procede a un ritmo più alto rispetto alle pianure - rendono inservibile l’immagine che lo spazio alpino sia lo spazio dei ghiacci e delle nevi perenni.

Di fatto non lo è più o, per essere più cauti, si avvia a non esserlo più a una velocità tale da rendere difficile, forse impossibile, aggiornare il nostro immaginario in accordo con il cambiamento in atto.

Per illustrare l’intervista che Daniele Ferriero mi ha fatto a proposito de Il velo nel quindicesimo numero di Quants Magazine, i redattori della rivista hanno utilizzato un paesaggio innevato dai tratti evidentemente alpini (le vette e gli abeti innevati, le piccole multiproprietà dai tetti a punta accatastate a poca distanza dal campanile, i contrasti di luci e ombre).

L’illustrazione è sì in dialogo con la messa in discussone di quegli stereotipi che il romanzo si propone di fare ma è anche un’immagine ormai scavalcata dagli eventi, ben lontana dalla realtà dei fatti, quella in cui il paesaggio invernale delle Alpi sta, per esempio, perdendo la sua cromia fatta di candide sfumature di bianco e azzurro per una che si gioca soprattutto sui toni terrosi dei boschi invernali.

Può sembrare solo un aneddoto di poco conto, ma penso sia interessante perché illustra quello che scrivevo un paio di paragrafi fa: la visualità non riesce a tenere il passo con l’accelerazione dei cambiamenti climatici che stiamo vivendo.

La visualità però è una dimensione fondamentale non soltanto per capirli, ma anche per riconoscerli. È una delle dimensioni attraverso cui negoziamo il nostro stare nel mondo e, se non ci impegniamo a capirla, difficilmente saremo in grado di aggiornarla, modificando di conseguenza la nostra relazione con esso.

Eppure, come riflette la scrittrice Brooke Jarvis in un articolo pubblicato qualche settimana fa sul magazine del New York Times, la nostra è un epoca in cui diffusione dei dispositivi di registrazione connessi a internet fa sì che, quando si verifica un evento di ampio respiro con marcati elementi di novità o spaventosi, le persone che lo attraversano producono immediatamente una grande quantità di contenuto visivo per raccontare la loro esperienza, precipitando chiunque lo fruisca nel dramma.

Jarvis scriveva i suoi pensieri nei giorni immediatamente successivi al passaggio dell’uragano Helene in North Carolina, notando come questa circostanza facesse sì che i dettagli di ciò che fino a poco fa poteva sembrarci distante nello spazio e anche nel tempo, passassero rapidamente dall'essere inconcepibili all'essere familiari.

Sono queste le caratteristiche che definiscono lo stile visivo del riscaldamento globale e dei suoi effetti: qualcosa che si manifesta in modo puntuale e delimitato ma avviene di fronte a decine, centinaia, a volte migliaia di obiettivi fotografici connessi al sistema nervoso periferico digitale all’interno del quale circolano le immagini prodotte attraverso di essi.

È un punto di frizione che avevo colto anche io ne Il bagliore, il saggio di theory fiction a cui ho lavorato quest’anno ed attualmente in cerca di un editore.

Il libro si apre infatti con una scena in cui la voce narrante del saggio osserva uno bagliore alieno accendersi nel tessuto del paesaggio della città in cui è nato e vive e, per confermare a se stesso di non essere vittima di un’allucinazione, il primo gesto che compie è estrarre lo smartphone per fissare il dettaglio attraverso uno scatto fotografico.

Non è il solo passaggio del saggio in cui lo smartphone opera come strumento con cui negoziare il modo in cui le persone, immerse nell’iperoggetto “riscaldamento globale”, provano a registrarne gli eventi per dar loro un senso.

Duecento anni fa, l’immaginario alpino nasceva anche per effetto del sentimento sublime che, mettendo l’uomo al cospetto del potere mortale della natura, lo rassicurava di poterne controllare la furia separandolo da essa.

Oggi, al contrario, quel privilegio sembra evaporare insieme all’immaginario che aveva contribuito a costruire, lasciandoci soli con i nostri device nel cuore delle potenze cosmiche che squassano l’ecosistema in cui viviamo.

Mi chiedo se non sia una sorta di antisublime il concetto di cui abbiamo bisogno per provare a ricostruire un immaginario all’altezza delle sfide che l’adattamento ci pone.

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Il velo è il mio primo romanzo. È fuori dal 21 aprile 2023 per le edizioni alphabeta. Lo trovi in libreria e in tutti gli store digitali. Se vuoi saperne di più leggi la scheda del romanzo.

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