#stupidigiocattolidilegno arriva lo #skatemolotov

Stupidi giocattoli di legno, il saggio sullo skateboarding che ho scritto negli ultimi 18 mesi, uscirà in libreria per i tipi di Agenzia X agli inizi di Ottobre.

#stupidigiocattolidilegno arriva lo #skatemolotov

Stupidi giocattoli di legno, il saggio sullo skateboarding che ho scritto negli ultimi 18 mesi, uscirà in libreria per i tipi di Agenzia X agli inizi di Ottobre. Scrivere di quest'oggetto che ha accompagnato la mia vita di adolescente e ancora oggi mi accompagna è un modo per restituire qualcosa di personale a una cultura che ha lasciato un segno indelebile sulla persona che sono diventato.

C'è una vignetta dei Boondocks in cui Huey Freeman si chiede se anche altre persone oltre a lui s'immaginino la propria vita raccontata in terza persona come se fosse un documentario di History Channel. A me succedeva regolarmente, tra i 15 e i 20 anni, di immaginarmi visto e descritto dall'esterno come se, appunto, qualcuno stesse raccontando la mia vita in terza persona. Eppure per quanto possiamo essere distaccati e autocritici verso noi stessi non lo saremo mai abbastanza da poterci descrivere con la ricchezza di dettagli e l'esatteza con cui ci descrivono le persone che ci stanno accanto.

Di tutte le descrizioni che hanno fatto di me ce n'è una che ricordo sempre con il sorriso sulle labbra. Anche se di tutte le circostanze non ho più una memoria chiara, sono certo che era sera e probabilmente stavo con un amico in un bar o a una festa o a una qualsiasi altra occasione sociale a cui potessero trovarsi un paio di adolescenti con una spiccata passione per la birra.

Sono piuttosto certo del fatto che quella sera avevamo da poco conosciuto delle persone nuove, forse delle ragazze, anche se su questo dettaglio non ci metterei la mano sul fuoco. Era uno di quei momenti in cui, complice l'alcool, ti racconti, senza farti troppi problemi, a uno sconosciuto qualsiasi. Affettuosamente e prendendomi un po' in giro quell'amico mi descrisse come "quello che d'estate, con 35 gradi, alle due del pomeriggio va a skateare e quando comincia a fare buio ci raggiunge sul prato dove siamo svaccati sudato come un maiale". Sarà stata l'estate del 2000 o forse un anno dopo.

In ogni caso era almeno un anno che avevo perso la testa per lo skate. Com'è successo, quel colpo di fulmine, lo ricordo invece alla perfezione. Nell'estate del 1999 avevo scoperto da qualche mese il punk e l'hardcore californiano. Lagwagon, NOFX, Pennywise e Offspring erano la colonna sonora delle mie giornate e insieme alla musica erano arrivate nuove amicizie. Ragazzi più grandi che sembravano inavvicinabili fino al giorno prima s'erano mostrati cordiali e amichevoli con noi pischelli e noi non ci avevamo pensato due volte a ricambiare l'amicizia. D'altrone se giri con gente considerata fica almeno un po' fico dovrai esserlo pure tu, no? O almeno a me piaceva crederlo anche se l'alone da nerd che mi portavo appresso si vedeva lontano un miglio di giorno e rischiarava il buio la notte.

Purtroppo negli anni '90 internet era ancora ai suoi albori e la mitologia del secchione asociale che trasforma il modo in cui le persone stringono i propri rapporti sociali non aveva ancora preso piede. E il nerd era soltanto uno sfigato, con degli hobby da sfigato. Tipo le Magic, un passatempo che venne sdoganato solo qualche anno più tardi, dando vita in me a numerosi quesiti sulla mia capacità di adattarmi ai tempi e a cui ancora oggi fatico a dare risposta.

Comunque un paio di quei nostri nuovi amici erano skater e capitava spesso che si portassero dietro la tavola. Non so spiegarmi perché quell'oggetto esercitasse su di me un fascino così forte, ma lo trovavo irresistibile. Forse perché essere uno skater e un punk era un modo per togliermi l'alone da nerd, senza per questo smettere di esserlo.

D'altronde in una società in cui furoreggiavano Gigi D'Agostino e gli Eiffel 65, e nelle discoteche non avevano ancora cominciato a passare i Blink 182, essere uno skater punkettone significava comunque essere un outsider, e certamente nessuno avrebbe potuto darti del secchoione se sapevi ollarti un cestino della spazzatura. Così vinsi la mia proverbiale timidezza e cominciai a stressare chiunque intorno a me avesse una tavola per poterla provare. Le mie prime spinte e i miei primi ollie li ho fatti così, volteggiando ai margini dello skatepark come un avvoltoio, in attesa di scroccare una tavola anche per pochi secondi. Pochi secondi che erano un tempo abbastanza lungo per capire che lo skate era qualcosa che volevo fare mio.

Qualche mese dopo, per Natale, acquistai la mia prima tavola, una Platinum bianca e rossa. Potrei dire che Stupidi giocattoli di legno ho cominciato a scriverlo proprio in quei giorni. Perché dentro questo libro ci sono quelle esperienze, analizzate con le lenti delle discipline che ho imparato ad amare negli anni dei miei studi.

Insomma cosa dovrete aspettarvi da questo libro? Quello che è certo è che Stupidi giocattoli di legno non è un libro sullo skate a 360° e nemmeno la classica storia della scena italiana, come ci si potrebbe aspettare da un libro che parla di sottoculture. Stupidi giocattoli di legno è innazitutto un saggio che racconta il rapporto tra lo skateboarding e la sua scenografia, gli spazi urbani che viviamo e attraversiamo ogni giorno.

Questo è il cuore del libro, il suo nucleo, il nocciolo irriducibile intorno a cui si costruisce tutta la scrittura. Il libro parla anche di altre cose: di come guardiamo lo skate, dei suoi strumenti e del rapporto che ogni skater intrattiene con loro, dell'immaginario e di come gli skater diventano attori sulla scena urbana dei nostri giorni con il loro sguardo carico di irriducibile differenza. E a volte cede la parola ad altri, agli skater, e a chi lo skate lo ha fotografato, promosso, progettato, venduto, distribuito. Perché lo skateboarding è sempre un ecosistema dove una parte non vive se non è collegata all'altra.

Per quanto cerchi di tratteggiare un quadro completo su questa cultura, Stupidi giocattoli di legno rifugge da ogni pretesa di universalità. Il suo punto di vista è condiviso ma personale. È l'atto di fondazione di un discorso sullo skate da una prospettiva che è al tempo stesso dentro e fuori dallo skateboarding, quella di uno skater e quella di un osservatore dei fenomeni sociali.

Stupidi giocattoli di legno è parente stretto del #calciomolotov e dell'#alpinismomolotov. Stupidi giocattoli di legno è lo #skatemolotov.

Ed è molotov, per me, lo skateboarding che non ha pretese egemoniche, che rivendica lo spazio conscio che questo nasce in una rete di relazioni con qualsiasi altro soggetto che lo abita.

È molotov lo skate che si fa ovunque si possa fare a dispetto delle condizioni del cemento, della pulizia degli spot, del livello degli skater.

È molotov lo skate che non fa distinzione di colori, che ti accoglie anche se la tua tavola preferita ha una grafica rosa con gli unicorni al posto di teschi e serpenti.

È molotov lo skate per cui una gara è prima di tutto una festa e poi, solo dopo, solo alla fine, è una gara. Quello skate in cui competizione significa voglia di migliorarsi e non tensione a primeggiare, costi quel che costi.

È molotov quello skate che si prende cura degli spazi abbandonati, che gli ridà nuova vita, che usa gli interstizi inutilizzati dalla società, che li fa rivivere perché sotto a quattro ruote di poliuretano hanno molto più senso di quanto non sembri.

È molotov lo skate che crea amicizie, legami, rapporti, che accoglie, condivide e unisce persone distanti per spazio, tempo, lingua, cultura, idee. Anche solo per un pomeriggio. Anche solo per due ore.

È molotov lo skate in cui la nostalgia non è mai lamento per i bei tempi andati ma veicolo per far crescere questa cultura.

È molotov lo skate in cui stile significa dialogo con le immagini degli altri da cui far nasce l'espressione della propria personalità, del proprio essere, del proprio modo di leggere e scrivere lo spazio che ci circonda.

È molotov lo skate che ci fa sentire liberi. Ed è quello che ho provato a raccontare.

*PS Le foto di questo post sono tratte dal servizio fotografico che illustra il libro, realizzato da Andrea Pozzato e me in un pomeriggio di primavera tra la stazione centrale di Milano e il quartiere Gratosoglio insieme ai ragazzi di Chef Family.