🌪️ Alcune note sulla policrisi del modello Alto Adige - La turbolenza #2
L’Alto Adige è sempre meno attraente. Non lo dico io, che con la mia terra faccio a cazzotti da così tanto tempo che per farci pace m’è servito scrivere un romanzo; a dirlo è uno studio della Fondazione Nord Est, commissionato dalla locale Confindustria.
Secondo lo studio, la provincia di Bolzano non va oltre il 120esimo posto di una classifica stilata in base a un indicatore, l’ERAI - Regional Attractivness Index, che la Fondazione Nord Est ha sviluppato e usa per misurare l’attrattività delle diverse regioni europee.
La perdita di fascino si traduce in un dato piuttosto bruto: per ogni cinque giovani altoatesini che lasciano la provincia alla ricerca di opportunità professionali uno soltanto decide di trasferirvisi.
Al netto di improbabili cigni neri, le proiezioni demografiche mostrano uno scenario preoccupante: il numero dei lavoratori sembra destinato infatti a diminuire di 32000 unità entro il 2040.
I primi a preoccuparsi per questa situazione sono ovviamente gli imprenditori: dal loro punto di vista significa non avere un bacino controllato di disoccupazione ma una potenziale indisponibilità di ricambio della forza-lavoro da sfruttare.
Sarebbe miope limitarsi a pensare a questa crisi solo nei termini del conflitto tra capitale e lavoro. Lo è senz’altro. Ma allargando lo sguardo e provando a unire una serie di puntini apparentemente scollegati, emerge un quadro d’insieme più complesso e sfaccettato.
A caccia di indizi di una crisi sistemica.
Una decina di anni fa accettai un incarico di branded content per un media locale indipendente. Il committente era una delle società che hanno in carico l’elaborazione e la messa in opera delle strategie di marketing che sostengono il brand Alto Adige.
Nella riunione di kick off, il funzionario responsabile del progetto mi spiegò che i contenuti che sarei andato a creare avevano come obiettivo raccontare il contributo che alcune aziende locali stavano dando all’innovazione nel settore tecnologico e digitale. L’iniziativa era sinergica alla mission dell’organizzazione che era fare dell’Alto Adige la più desiderata regione europea in cui vivere e lavorare.
Lo studio della Fondazione Nord Est ci dice che le cose sono andate in modo diverso, molto diverso, da quello che le istituzioni locali si aspettavano. A mio parere si tratta di un fallimento e credo che gli industriali altoatesini pensino più o meno lo stesso.
Se fossero sereni rispetto all’operato delle istituzioni, avrebbero commissionato e reso pubblici dei dati che mettono apertamente in questione la narrazione dell’Alto Adige come un territorio il cui mercato del lavoro è in grado di garantire salari adeguati a sostenere un costo della vita più alto della media nazionale?
Me lo domando perché quella che viene messa in discussione non è una narrazione qualunque: è quella che perpetua il patto sociale attraverso cui, negli ultimi quarant’anni, è stata garantita l’espulsione del conflitto etnico dall’orizzonte della società altoatesina.
Un patto sociale basato su un sviluppo economico stabile e prospero e un diffuso benessere assicurato da un welfare solido e diffuso. Cioè gli elementi fondanti dell’eccezionalità altoatesina, ottenuti grazie alle prerogative dell'Autonomia e al solo costo di una guida politica ben definita e capace di garantire un equilibrio di interessi contrapposti che, pur non essendo mai stato perfetto equilibrio, non è mai risultato troppo sbilanciato.
Quello che viene messo in discussione, quindi, è l’intero impianto dell’edificio identitario altoatesino, del quale l’architrave è proprio la narrazione dell’Alto Adige come terra di opportunità e alta qualità della vita distante ma non isolata dalla dimensione della vita metropolitana.
Ogni intervento che la metta in dubbio viene perciò percepito come un pericolo mortale e deve essere contenuto nel modo più rapido ed efficace possibile.
E infatti l’assessora al lavoro Magdalena Amhof non si sarebbe affrettata a dichiarare, un paio di giorni dopo la pubblicazione dello studio della Fondazione Nord Est, che “il mercato del lavoro altoatesino è fortemente attraente per i lavoratori provenienti da fuori provincia”.
È interessante approfondire di quali lavoratori sta parlando Amhof, la cui dichiarazione prosegue in questo modo: “è vero che stiamo assistendo a un crescente esodo di lavoratori altoatesini, soprattutto verso i vicini Paesi di lingua tedesca, che in termini di lingua e cultura non presentano ostacoli all'integrazione. Va detto che in quasi tutti i Paesi europei si registra un esodo verso mercati del lavoro interessanti, generalmente dalle regioni meridionali a quelle settentrionali. Allo stesso tempo, però, l'Alto Adige attrae nuova manodopera, soprattutto da altre regioni italiane. Tre quarti dell'aumento del numero di occupati negli ultimi due decenni possono essere attribuiti alla manodopera immigrata. Nel complesso, immigrazione ed emigrazione sono in equilibrio.”
Di queste parole mi colpisce innanzitutto come, nello scontro con Confindustria, la Provincia indichi come fattore positivo l’immigrazione dal resto d’Italia, che per decenni è stata vista come una minaccia all’integrità linguistica e culturale del territorio.
In secondo luogo, spicca la mancanza di qualsiasi tipo di indicatore qualitativo. Che tipo di lavoratori arrivano da sud delle Chiuse di Salorno? Sono soprattutto lavoratori altamente qualificati o manodopera da impiegare in quei servizi di base sempre più difficili da garantire, in un territorio dove i salari e il costo della vita sono sempre meno allineati? E, ancora, quanti di questi lavoratori riescono a stabilizzarsi sul territorio e a integrarsi nel tessuto sociale? Qual è, quindi, per usare un termine di marketing, il tasso di retention del mercato del lavoro e della società altoatesina?
Purtroppo, a sostegno della mia ipotesi - che si tratti in prevalenza di lavoratori non qualificati soggetti a un elevato turnover - non ho nessun dato certo, ma solo impressioni soggettive , che mi limito a riportare più come spunto da verificare che come certezza incrollabile.
Quello che invece mi pare evidente è che tra l’imprenditoria locale e la giunta provinciale si stia creando una certa distanza di vedute in merito alle politiche necessarie a garantire lo sviluppo del territorio.
Mi sembra infatti questa la dinamica che si è innescata in seguito alla pubblicazione dello studio della Fondazione Nord Est, con la giunta che entra in modalità damage control per rispondere alla sollecitazione proveniente dal mondo imprenditoriale. Non è la prima volta che si vede in atto. Già nei mesi scorsi si era attivata intorno a una questione ormai sempre più scomoda e scottante: il caro casa.
Emersa in modo prepotente nel dibattito durante tutto il 2024, è stata fatta a lungo passare come una questione da “buonisti” fino a quando non ha iniziato a interessare anche gli italiani oltre categorie poco desiderate come gli stranieri o gli studenti..
Anche in questo caso si era manifestata una certa distanza di opinioni tra il mondo imprenditoriale e la giunta provinciale.
Non so stabilire quanto questa distanza sia solo una mia percezione e nasconda un gioco delle parti che sono troppo lontano dal potere per decifrare, oppure se, come penso, sia l'indizio di una crisi sistemica più profonda di quanto non appaia oggi.
A caccia di indizi di una crisi politica.
Ammettiamo che io abbia ragione e che le schermaglie tra Confindustria e giunta siano indizi di una crisi sistemica che scorre al di sotto della superficie della quotidianità: quanto è solida la posizione dell’attuale giunta provinciale e della Südtiroler Volkspartei (SVP), il suo partito di maggioranza?
Una risposta ragionevole a questa domanda date le condizioni di partenza potrebbe essere: non così forte da poter governare serenamente una crisi sistemica.
Per tutta la sua esistenza il “partito di raccolta” ha funzionato come un centro di gravità capace di mediare le tensioni politiche per tutelare gli interessi della popolazione di madrelingua tedesca dell’Alto Adige e garantirne la coesione di fronte allo Stato italiano.
Un ruolo che, alla luce degli sviluppi più recenti, sembra in via di esaurimento.
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Alle ultime elezioni provinciali, quelle del 2023, la SVP ha perso sette punti percentuali rispetto alla precedente tornata elettorale, scendendo per la prima volta sotto alla soglia “psicologica” del 38% che, per una serie di meccanismi del nostro sistema elettorale, l’ha obbligata a formare la giunta con un partner di madrelingua tedesca oltre a quello di madrelingua italiana normalmente previsto.
Dopo una serie di consultazioni durate più a lungo del solito, la SVP ha formato una coalizione di centro destra, scegliendo come partner i Freiheitlichen, la lista La Civica del centrista italiano Angelo Gennaccaro, Forza Italia, Lega Nord e Fratelli d’Italia.
Se la presenza della Lega Nord non stupisce più di tanto, avendo il partito di Salvini già governato insieme alla SVP nella precedente legislatura, quella di Fratelli d’Italia è una presenza sorprendente.
Per la prima volta nella storia repubblicana un partito la cui genealogia politica rimanda direttamente a quella del Partito Nazionale Fascista attraverso il retaggio di Alleanza Nazionale e del Movimento Sociale Italiano siede nella giunta provinciale altoatesina come alleato della SVP.
Se il me del futuro lo avesse detto al me del passato, il me del passato lo avrebbe preso per matto.
La scelta è stata giustificata dai vertici della SVP sostenendo che Fratelli d’Italia, in quanto primo partito italiano della provincia, è rappresentativo della maggioranza della popolazione di lingua italiana.
Tecnicamente è vero, ma la SVP avrebbe potuto formare una giunta anche insieme al Partito Democratico, ai Verdi e al Team K, dando vita a un esecutivo di centro sinistra con un partito di madrelingua italiana e due partiti d’impianto interetnico.
Se non lo ha fatto probabilmente è perché una giunta di questo genere sarebbe risultata più difficile da indirizzare e controllare in un momento in cui la SVP sente sfuggirle di mano la presa che per decenni ha avuto sulla popolazione di madrelingua tedesca della provincia.
Da una parte la pandemia ha mostrato che la società altoatesina è attraversata da fratture più profonde di quanto sarebbe stato possibile ipotizzare senza l’intervento di un shock culturale così forte.
Dall’altra parte, a destra della SVP hanno guadagnato voti (e seggi) sia la Sudtiroler Freiheit (STF) che lista JWA del capopopolo no vax Jürgen Wirth Anderlan.
Seppure limitato in termini percentuali, al risultato della destra tedesca bisogna prestare attenzione, perché, parafrasando Lenin, questi sono tempi in cui in settimane accadono decenni.
Accade, per esempio, che tutta l’area D-A-CH stia virando in modo sempre più evidente e deciso verso l’estrema destra, sotto la spinta della crisi, economica e di leadership, verso cui la Germania aveva cominciato ad avviarsi alla fine dell’era Merkel per poi accelerare in modo inaspettato, spinta dalle ricadute dell’aggressione imperialista della Russia contro l’Ucraina.
In un epoca in cui i meme politici corrono rapidissimi lungo le infrastrutture digitali e si diffondono al di là delle barriere culturali creando cluster di valori che travalicano i confini, pensare che questo Zeitgeist non avrà ricadute sulla società altatesina sarebbe miope e scriteriato.
Dall’altro lato della barricata, all’egemonia della nuova destra sovranista e disruptive si oppone la galassia delle sottoculture della nuova sinistra liberale, che ha nel movimento No Excuses la sua espressione locale più evidente.
Originatosi in modo spontaneo per articolare una critica da sinistra alla scelta della SVP di dare vita a una giunta di centro destra, nel movimento No Excuses si saldano due componenti importanti della sinistra altoatesina di madrelingua tedesca: l’area sociale di tradizione cattolica e le più giovani soggettività urbane e woke che hanno le loro radici nell’ambientalismo contemporaneo, nell’attivismo LGBTQ+ e nelle professionalità delle cultural & creative industries.
Pur potendogli imputare una certa mancanza di tempismo - la Lega Nord di Salvini Premier con cui l’SVP aveva governato dal 2018 al 2023 non era meno antiscientifica, razzista e sovranista dell’odierno Fratelli d’Italia - No Excuses è un movimento a cui guardare con la stessa attenzione che bisogna dedicare ai partiti collocati a destra della SVP.
La polarizzazione della società intorno a set di valori morali opposti è una delle caratteristiche distintive della contemporaneità ed è una condizione inedita per la SVP.
Oggi, infatti, il collante etnico e linguistico appare meno saldo, proprio perché la società in cui viviamo è una società globalizzata in cui i posizionamenti politici si delineano in base all’aderenza a questi set di valori che trascendono le specificità culturali locali o, al limite, vengono declinati in base a esse.
Messa di fronte alle guerre culturali oggi in corso, l’SVP fa sempre più difficoltà a esercitare la funzione di mediazione che ne è stata la ragion d’essere nel corso di tutta la sua storia politica. Più si sposta verso il polo di valori vicino alla destra e più rischia di allontanare le componenti di sinistra del suo bacino elettorale; più si sposta verso il polo di valori di sinistra e più rischia di allontanare le componenti di destra del suo bacino elettorale.
Un equilibrismo che, nel lungo periodo, può diventare un problema. In un’epoca di posizioni politiche estreme, un partito che è costretto a non schierarsi mai, in nome della sua storia e per la funzione che esercita, si espone al pericolo di deludere entrambe le componenti da cui cerca di ottenere il consenso.
Sia chiaro, si tratta di un pericolo a cui l’SVP è stata sempre esposta per sua stessa natura ma che, mai come ora, mette a repentaglio la governabilità del territorio e la tenuta del sistema che lo amministra.
Tutto questo avviene nel contesto di un mondo in cui l’egemonia degli Stati Uniti sbiadisce e all’orizzonte della storia appaiono altre potenze, imperi nuovi: la Cina futurista di Xi Jinping e la Russia autocratica di Vladimir Putin. E mentre questo accade, tramonta anche il sogno tecnocratico della liberal democrazia che aveva pacificato l’occidente dopo la tempesta degli anni ‘70 del Novecento.
Il modo in cui l’Alto Adige si inserisce in questo contesto, le relazioni funzionali che intrattiene con l’area D-A-CH da una parte e con l’Italia dall’altra andrebbero spiegate e analizzate. Non lo farò qui per ragioni di spazio, ma proverò a farlo in futuro.
Mi limito a interrogarmi se e come l’SVP avrà le risorse per rispondere a sfide di tale portata.
Questo post è così fiiiiigo perché lo ha editato Enrico. Iscriviti al suo blog, ha la featured image più bella dell'universo. ⤴️
Postilla: scrivere nel cuore delle cose.
Policrisi è una parola stupenda e pericolosa. Di quelle parole cesellate in modo così fino da apparire abbaglianti e non aver bisogno di essere spiegate.
Lo storico Adam Tooze ha iniziato a usarla qualche anno fa per descrivere la condizione di un tempo, il nostro, il cui destino e segnato non da una ma da più crisi intrecciate le une con le altre.
Il testo che hai appena letto è un tentativo di scrivere la policrisi vivendola in medias res: stare nel cuore delle cose quando esse accadono.
Per la prima volta da quando sono nato, l’Alto Adige sembra davvero attraversato dalle tensioni che scuotono il mondo e avverto la sensazione che i prossimi anni saranno cruciali nel definirne l’assetto futuro.
Questo scritto perciò è un esperimento, ma è anche il tentativo di aprire una serie. Ho deciso di chiamarla La turbolenza, come il post con cui commentavo, a caldo, il risultato elettorale dell’autunno del 2023. Se la continuerò, questa serie sarà una serie di note e appunti, il diario di lavorazione un libro che, al momento, esiste solo come progetto.
Il titolo di lavorazione suona così: Il sudtirolo alla fine della fine della storia.
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