Alcune note sull'immaginario delle IA.
In che modo le corporation del tech immaginano il nostro rapporto con le intelligenze artificiali. Alcune note sull'immaginario delle IA come viene raccontato in un spot di Apple.
Qualche giorno fa un amico mi ha mandato il video con cui Apple ha introdotto al pubblico gli strumenti di scrittura del sistema di intelligenza artificiale incorporato nella sedicesima iterazione del suo smartphone.
Il video, che dura poco meno di un minuto, è ambientato nell’open space dell’ufficio di una generica azienda di medio-grandi dimensioni.
Il protagonista è un impiegato dall’aspetto ordinario: pancetta da lavoro sedentario, barba accettabilmente ordinata, camicia bianca a quadretti, pantaloni grigi.
Nella prima inquadratura siede stravaccato sulla sedia girevole, di cui aziona la leva che ne regola l’altezza per lasciare che la seduta sprofondi verso il basso sotto al suo peso. Nella seconda fa girare una collana di graffette ripetendo ossessivamente un verso con la bocca. Poi allunga una striscia di nastro adesivo solo per sentirla stiracchiarsi e, infine, contempla una busta mentre ne lecca la colla commentando il gesto con un laconico “wow”.
A questa serie di azioni segue un gesto. L’impiegato prende in mano il suo smartphone, ne contempla per un istante lo schermo, poi prende a scrivere un messaggio.
La camera di avvicina al display e scopriamo che l’impiegato, Warren, sta scrivendo a un certo J una mail il cui oggetto recita “project stuff”. Il corpo del testo dice invece: “Hey J, this project might need a bit of zhuzing...but you’re the big enchilada. Holler back, Warren.
Tradotto alla lettera il messaggio di Warren suona all’incirca così: “Ciao J, questo progetto potrebbe aver bisogno di un po’ zumzum...ma tu sei la grande piadina. Saluti, Warren.”
La camera inquadra la parte bassa del riquadro di testo, sotto al quale campeggiano una serie di pulsanti. Uno di essi è etichettato con la parola “professional”, sormontata dall’icona stilizzata di una valigetta.
Il dito di Warren si avvicina e lo preme ed è a quel punto che accade la magia. Il testo si trasforma e, dall’accrocchio sconclusionato qual era appare una nuova frase: “Hey J, Upon further considerato, I belive this project may require some refinement. However, you are the most capable individual to undertake this task. Please let me know your thoughts. Best ragards, Warren” (“Ciao J, credo che questo progetto abbia bisogno di qualche miglioramento. Penso tu sia la persona più capace per occuparsi di questo compito. Fammi sapere che ne pensi. Saluti, Warren.”)
La camera stacca sul piano americano di Warren. Il gesto del dito e un effetto sonoro mostrano che il messaggio è stato affidato all’etere e, mentre l’infrastruttura digitale lo consegna, Warren si gira sulla sedia per guardare la persona a cui appartiene lo sguardo con cui abbiamo assistito a tutta la scena.
È un uomo di colore. Indossa un vestito elegante e siede nel suo ufficio, separato dall’open space da un vetro la cui presenza è rivelata dai montanti che il movimento della camera scopre al nostro sguardo.
Prima di vederlo ne ascoltiamo la voce. Sta leggendo il messaggio appena inviato da Warren. Il suo sguardo, fisso davanti allo schermo aperto di un portatile, è sospeso tra perplessità e stupore.
Appena finisce di leggerlo volta la testa in direzione di quella che ormai abbiamo capito essere la postazione di Warren.
Il video si chiude con un controcampo sull’impiegato. Sta facendo volteggiare la catena di graffette con un’espressione tronfia sul viso, mentre in sottofondo suona la traccia Genius del rapper Krizz Kaliko.
L’inquadratura resta fissa sul suo momento di gloria e, mentre il video si conclude, passano in sovrimpressione il claim dello spot, write smarter, il nome del sistema che manterrà questa promessa, Apple Intelligence, e il dispositivo che la renderà immediatamente possibile, iPhone 16.
Produrre content è il modo in cui le aziende declinano e trasmettono ai loro pubblici le proprie identità di marca.
Il content è il racconto aziendale e la pietra angolare del mondo che i brand desiderano costruire affinché il loro pubblico possa abitarne l’universo di senso attraverso la relazione con la merce.
Nel content si rivela la visione che i brand hanno della realtà e il modo in cui desiderino che si plasmi la nostra relazione con essa, per tramite dei prodotti e dei servizi che le aziende offrono.
Per un lungo periodo di tempo, Apple è stato il brand i cui prodotti hanno rappresentato, per i loro utenti, la promessa di potenziamento che le tecnologie digitali facevano nei confronti della creatività come massima espressione dell'animo umano.
Nel modo in cui questo video ci parla del del ruolo che l’intelligenza artificiale potrebbe avere nelle nostre vite non c'è solo la visione con cui l’azienda di Cupertino pensa che dovremmo usare questi strumenti ma sembra scorgersi anche una tentativo di riposizionare la propria identità, aggiornandola al mutare del contesto.
La visione mi appare non soltanto misera - distante anni luce dalla magniloquenza di uno spot come 1984, il celebre video di lancio del Macintosh diretto da Ridley Scott - ma anche opaca.
Opaca perché nasconde dietro a un’apparenza magica tutto il lavoro di tuning di cui un intelligenza artificiale generativa ha bisogno per essere addestrata e poter funzionare in modo soddisfacente.
Un processo che, lo sa bene chiunque vi si sia dedicato, richiede preparazione, tempo e una lunga serie di prove ed errori oltre che un notevole consumo di risorse.
Per poter funzionare, infatti, le intelligenze artificiali generative hanno bisogno di una quantità elevata di energia per produrre la quale servono numerose risorse che vengono consumate a ogni richiesta loro effettuata.
Tutto questo scompare dietro alle pareti della scatola nera attraverso cui si compie l’incantesimo che, in questo risiede la parte misera della visione proposta dallo spot, ha come obiettivo un semplice trucchetto da ufficio.
Perché se a prima vista quello che Warren si trova ad affrontare potrebbe sembrare il blocco dello scrittore, nel corso della trama non si rivela altro che il tentativo, riuscito, di schivare un’incombenza di lavoro.
Più che uno strumento per potenziare la nostra capacità di pensare o di creare, nel video le intelligenze artificiali vengono presentate come una sorta di espediente capace di risolvere un compito tutto sommato banale come scrivere una breve e-mail con un tono adeguato al contesto in cui ci si trova.
Per i fautori di questa tecnologia si tratta di uno dei punti di forza più evidenti delle intelligenze artificiali generative e uno dei loro usi più utili. Dal mio punto di vista mi chiedo se non sia invece il caso di provare a ridurre il più possibile le mansioni monotone e ripetitive a cui una persona è costretta.
Questo per lo meno è stato uno dei miei obiettivi nel passaggio dalla condizione di lavoratore dipendente a quella di lavoratore indipendente.
Se però ci si trova costretti a svolgerle, così potrebbe argomentare un ipotetico interlocutore che parli da una posizione di entusiasmo verso questa tecnologia, meglio avere a disposizione uno strumento capace di farlo al posto tuo.
Sollevare le persone da mansioni monotone e ripetitive, liberando loro tempo per attività capaci di restituire dignità all’intelletto umano è proprio una delle grandi promesse dell’automazione e dell’intelligenza artificiale.
Nel caso in questione mi domando se sia davvero così tanto il tempo che Warren dovrebbe impiegare per trovare il tono corretto per scrivere il suo messaggio? E ancora, e forse è più importante, nella visione che le aziende come Apple hanno di questo snodo potrà Warren alzarsi dalla sua sedia e uscire dall’ufficio per mettere a frutto il suo tempo in modo più profondo e significativo? Oppure le catene della burocrazia aziendale continueranno a tenerlo avvinto alla sua postazione?
La propaganda corporativa lascia aperta questa domanda, ma sono portato a credere, dammi pure del malfidente se credi, che è la seconda delle due sia la più probabile delle risposte.
Qualcuno potrebbe anche provare a leggere lo spot come un piccolo episodio di lotta di classe: l’impiegato che riesce a scansare un compito, accollandolo a un diretto superiore grazie all’intelligenza artificiale piegata alla sua astuzia proletaria.
È un’immagine stuzzicante, ma in questo gesto c’è poco o nulla di politico.
Come poco o nulla di politico c’è, ormai dovremmo averlo capito, in tecnologie progettate e sviluppate con un preciso orientamento ideologico.
Tecnologie sulle quali le nostre possibilità di intervento sono strettamente limitate alle interfacce con cui ci viene concessi di interagire con loro.
E non c’è open che regga, anche questo mi sembra ormai piuttosto chiaro, se prima non si è messo sottosopra il modo di produzione esistente attraverso l’attività di organizzazione che trasforma il sentimento della coscienza di classe nella lotta politica che abolisce lo stato di cose presente.
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