Apologia del personal branding
Ieri è uscito su Il Tascabile un pezzo di Andrea Daniele Signorelli dedicato al personal branding.
È un pezzo interessante, perché prova a contestualizzare il tema in una prospettiva storica e sul tema esprime una tesi forte con cui è stimolante confrontarsi.
Riassunta per sommi capi, la tesi di Andrea (ci conosciamo, quindi gli do del tu. Ciao Andrea!) è che la crescente importanza del personal branding sia l’effetto della progressiva precarizzazione del lavoro che, aumentando la competizione, spinge le persone a gestire se stessi come delle (piccole) imprese.
Il pezzo prende le mosse da The brand called you, un articolo del 1997 in cui l’autore, Tom Peters, esorta i suoi lettori a diventare responsabili marketing di se stessi, delineando, scrive Andrea:
quello che diventerà un mantra per tantissimi professionisti di ogni categoria: l’autopromozione, il marketing di noi stessi, la capacità di mettersi in vetrina (con tanto di cartellino del prezzo appeso) e di attirare l’attenzione dei clienti.
In questo passaggio del pezzo di Andrea, c’è quella che, per me, è la radice dell’equivoco che lo porta a stiracchiare troppo il concetto di personal branding, ed è una certa confusione su cosa sia di preciso il processo di branding e cosa significhi applicarlo alla propria immagine.
Branding, worldbuilding, storytelling. Un excursus storico.
Il branding è un elemento, centrale, della promozione che è, a sua volta, una delle sette leve del marketing mix, ovvero dell’insieme di elementi su cui la funzione di marketing esercita la sua azione.
In origine, il termine indicava l’atto con cui veniva marchiato un capo di allevamento per imprimere sulla sua pelle un segno riconoscibile della sua proprietà. La parola brand nasce quindi per indicare il marchio di metallo arroventato che veniva usato per questo scopo.
All’incirca negli anni ’60 del Novecento, il branding consisteva nel assegnare a un prodotto lavorato in serie un elemento in grado di renderlo riconoscibile, memorabile e diverso dagli altri prodotti dello stesso tipo.
Tra gli anni ’80 e ’90 del Novecento, il raggio d’azione di questo processo si amplia dal prodotto all’azienda che lo produce. Alla sua funzione di riconoscimento, memorabilità e differenziazione se ne aggiunge una ulteriore in cui confluiscono le qualità immateriali che definiscono da una parte l’orizzonte di valori della marca e, dall’altra parte, la sua identità.
In questo passaggio l’ordine di priorità si inverte e la definizione di delle qualità immateriali del brand (missione, visione, valori, personalità tono e principi guida della voce) diventa dominante rispetto alla sue funzione di riconoscibilità, memorabili e differenziazione, precedendola ma, soprattutto, inquadrandola in un mondo semiotico che ne definisce i confini.
Una volta definito come universo semiotico e personalità della marca, il processo di branding si prolunga, attraverso l’arte della narrazione (storytelling), in un racconto continuo e in evoluzione costante della storia della marca stessa.
Un processo che, come nota con acutezza Andrea, l’avvento delle piattaforme digitali e la loro progressiva natura social rendono accessibile a chiunque, con costi di produzione e distribuzione dell’informazione tendenti a zero.
Il personal branding non è altro che l’applicazione di questa logica alla propria immagine pubblica.
Postilla sulla natura performativa delle piattaforme social
Un altra cosa su cui sono profondamente d’accordo con Andrea è la natura performativa delle piattaforme social. Queste funzionano infatti come un palcoscenico su cui recitiamo un’identità che, dice Andrea, costruiamo “per aggiunta (cosa mostrare), ma anche per sottrazione (cosa non mostrare)”.
Proprio per questo motivo, ecco una cosa su cui, invece, non sono d’accordo non “tutto ciò che ci riguarda diventa performativo”, ma tutto ciò che ci riguarda può potenzialmente diventarlo, proprio perché la scelta e la gestione di cosa vogliamo mostrare o nascondere spetta a noi stessi.
Questa scelta è una parte importante del processo di personal branding; se intorno alla nostra persona costruiamo un’immagine a partire da un universo semiotico e da un’identità definite dobbiamo, per risultare coerenti con quest’immagine, selezionare i contenuti che distribuiamo in base a essa.
Ma qual è l’immagine che costruiamo e veicoliamo in pubblico attraverso il processo di personal branding? Andrea ce lo dice in un passaggio nel secondo paragrafo dell’articolo, quando parla del personal branding come
uno dei termini che, negli ultimi decenni, ha maggiormente segnato il mondo del lavoro (soprattutto ma non solo freelance)
L’immagine che il personal branding contribuisce a costruire è quindi la nostra immagine professionale. Anzi, più nello specifico, l’immagine professionale di chi sceglie l’autonomia come la propria dimensione lavorativa. Ciò non significa che chi non condivide questa dimensione sfugga alla natura performativa delle piattaforme e non sia impegnato in una serie di atti continui di produzione della propria immagine ma, se lo fa, lo fa probabilmente in modo tattico e non strategico.
Chiarito e superato questo bivio, fermiamoci a ragionare sulla natura del freelancing prima di proseguire.
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Identità freelance, autonomia e indipendenza.
Per la mia esperienza personale, quella freelance è un’identità che si esprime in una dimensione professionale di autonomia e in una condizione di indipendenza.
In quanto identità, la condizione di freelance accorcia moltissimo la distanza tra la propria vita professionale e personale. Mentre la prima si allunga sulla seconda e la seconda sconfina nella prima, il confine tra le due si fa sempre più sottile fino a sparire.
Questo passaggio viene sancito in modo quasi automatico nel momento in cui un freelance apre la propria partita iva.
Da quell’istante in avanti, infatti, la sua dimensione professionale di autonomia si traduce in un aumento dei compiti: fatturazione, contabilità, fiscalità, recupero crediti, gestione della relazione col cliente, controllo dei costi, organizzazione del lavoro e delle scadenze, promozione e molte altre funzioni simili, che in una dimensione professionale dipendente non spettano al lavoratore, diventano responsabilità del freelance
A trasformare il freelance nella start up di se stesso è l’insieme di tutte queste funzioni, non soltanto il processo di personal branding che, come abbiamo visto, costituisce solo la frazione di una di esse.
Gestire questo passaggio e l’impiego di energie fisiche e mentali che esso comporta non è per niente facile. Servono forza, volontà ed equilibrio e, spesso, anche avendole, non è scontato riuscirci senza patire delle conseguenze.
Nel caso dei freelance penso sia soprattutto l’insieme di questo carico, e non solo una delle sue parti, a determinare l’auomento dei casi di burnout che Andrea rileva nel suo pezzo citando, tra gli altri, l’Organizzazione Mondiale della Sanità che, nel 2019, lo ha riconosciuto come
un “fenomeno occupazionale” che “deriva da uno stresso cronico sul luogo di lavoro non gestito con successo”.
A questo insieme si aggiunge anche la condizione di insicurezza rispetto ai pagamenti e alla loro puntualità che è parte delle preoccupazioni più pressanti di ogni persona che sceglie di abbracciare l’identità freelance, così come la mancanza di tutele in caso di infortunio o malattia a cui si deve far fronte attraverso polizze di assicurazione professionali.
Per come la vedo io, insomma, il personal branding è solo una componente minima di una più ampio insieme di elementi che, nel passaggio a una dimensione professionali indipendente, generano stress su chi compie questa scelta e ancora di più su chi a questa scelta è costretto.
Uno stress che, su questo la diagnosi di Andrea è ancora una volta molto acuta, colpisce con particolare forza chi, per la sua carriera da freelance, decide di scegliere le piattaforme digitali come suo principale datore di lavoro. Stringere una relazione professionale con una scatola nera per garantirsi la propria sussistenza aggiunge un layer di stress, in quanto la piattaforma determinare le condizioni del lavoro con possibilità scarse o nulla, per il lavoratore, di influire sulle sue scelte, obbligandolo a una continua rincorsa, in grado di consumare rapidamente le energie fisiche e mentali.
Queste significa che abbracciare l’identità freelance e la scelta di una dimensione professionale indipendente sono di per sé negative? Ovviamente no, come dimostra il fenomeno delle Grandi Dimissioni, la ricerca dell’autonomia professionale è una condizione a cui sempre più persone ambiscono, in un modo che promette la possibilità di guadagnarsi da vivere coltivando le proprie passioni a beneficio di un pubblico o di un committente, sia esso una persona o una piattaforma.
Conclusione: una questione di qualità.
Nel suo articolo Andrea usa il concetto di personal branding in modo fin troppo esteso, facendone la struttura che lega insieme una serie di fenomeni il cui collante, come ho provato a mostrare in questo post, andrebbe individuato altrove.
Un concetto su cui sembra pesare, almeno in filigrana, uno stigma, quello del marketing come attività manipolatoria, ma che, in estrema sintesi, altro non è che lo sforzo con cui un professionista freelance prova a gestire la sua immagine pubblica.
Personalmente trovo non ci sia nulla di male a farlo. Così come scelgo un abbigliamento consono quando mi presento a un potenziale nuovo cliente, allo stesso modo curo il modo in cui appaio online e nutro la mia immagine attraverso la produzione di contenuti che distribuisco prevalentemente su questo blog.
Facendolo da tanto tempo ho imparato che, a contare davvero, per il mio personal branding non sono tanto i numeri che esso genera, quanto la qualità delle relazioni che mi consente di stringere con altri professionisti che, spesso, sono anche potenziali nuovi clienti.
Forse, rifletto, la sostenibilità di quest’attività sta anche in questo spostamento di focus dalla performance alla relazione. In un ecosistema dove verticalità e costanza sembrano servire più le piattaforme che i creator che le rendono attrattive per il pubblico, un approccio più scanzonato, che ritorni all’orizzontalità e alla scoperta è uno modo per fare del personal branding il racconto di sé che dà forma a un’immagine professionale (e non solo) autentica e a tutto tondo.
Eh sì, sto facendo personal branding anche in questo momento 😉.
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