(ri)velato #6 - Una poetica dei bordi
Oltre l'immaginario da cartolina, "Il velo" va alla ricerca di una poetica dei bordi e dei luoghi minimi. (ri)velato: spin off, curiosità e dietro le quinte del mio primo romanzo.
All’incrocio abbandonai la via principale svoltando a sinistra. Sotto il pile avvertivo già un velo di sudore. Le rampe di scale in cemento che attaccavano la prima parte della salita mi condussero nella edgeland, lì dove il quartiere si fa prima bosco e poi montagna. S’inerpicavano discrete tra i palazzi, insinuandosi tra appartamenti in cui, a quell’ora, la maggior parte delle persone stava ancora finendo di sorseggiare il caffè che segue il pranzo. Soltanto una coppia di anziani mi faceva compagnia, salendo lentamente un gradino dopo l’altro, tra il cinguettio dei pettirossi e lo scricchiolare delle mie suole sul cemento terroso. Li superai agilmente e arrivai a un terrazzino. Un retaker con pettorina d’ordinanza stava cancellando la scritta sul muro che lo delimitava. Tratteggiato con un lettering a pinnacoli, quasi tagliente, il graffito inneggiava al quartiere, dichiarando: Oltry rulez. Combattenti tribali in una guerra che nessuno aveva dichiarato, i ragazzi provavano orgoglio per la loro zona. Crescere tra questi anfratti significava conquistarsi la credibilità di strada che la città vetrina negava.
Raschiare via la patina di bellezza da cartolina che si deposita sull'immagine del territorio, per illuminare le zone in ombra della città vetrina. Ne Il velo, la ricerca di un immaginario che vada oltre il cliché più trito dell'Alto Adige diventa deriva psicogeografica dentro e fuori dai confini di Bolzano.
È un pensiero dell'oltre quello di cui vado alla ricerca. Un pensiero capace di portare il lettore al di là dell'immaginario e della narrazione "commerciale" del territorio e che si esprime anche attraverso una poetica dei bordi, delle zone marginali e ibride dove la città si sfalda nella campagna e la campagna è ancora costellata dai segni della città.
Nelle pagine di Ballardismo applicato, Simon Sellars chiama edgeland questi spazi. Spazi in cui la trama della realtà si fa più sottile e dimensioni altre e perturbanti si affacciano di fronte al nostro sguardo.
Il sentiero procedeva ripido e sinuoso, al riparo degli alberi e all’ombra della mole di Castel Flavon, un torrione militare riconvertito in ristorante di pregio che, abbarbicato su uno spuntone roccioso, dominava la conca di Bolzano guardando in direzione di Merano. Poco più sopra, al termine della salita, mi aspettava una panchina imbullonata a un terrazzo di roccia che si apriva in mezzo agli abeti, appena un centinaio di metri più in alto del castello. L’avevo scoperta dopo la rottura con Federica, quando il bisogno di trovare un posto in cui riflettere mi aveva spinto a esplorare quella parte di montagna. Quando la raggiunsi, la vista si spalancò davanti ai miei occhi. La mappa divenne territorio.
Penso ci sia una bellezza abbacinante in questo genere di spazi. È la bellezza dei luoghi che sfuggono alla cattura del cliché, che negano, con la loro esistenza, la rappresentazione stereotipica del territorio e fondano così la possibilità di uno sguardo altro, che modifica la percezione della città.
Nel tentativo di scrivere il reportage sull'Alto Adige che gli è stato commissionato dall'editrice Arianna Lanzinger, Alex, il protagonista de Il velo, va all'ostinata ricerca di tali luoghi, perché il territorio in cui torna all'inizio del romanzo ha smesso di coincidere con la mappa disegnata nella sua mente.
Una poetica dei bordi è, perciò, anche il lavoro che, attraverso la scrittura, riconnette la mappa con il territorio che la esprime e, così facendo, cartografa tutte le nuove soggettività che derivano dalle sue configurazioni.
Riconobbi che la città non era più la stessa che avevo conosciuto un tempo. Arianna aveva ragione, forze diverse l’avevano plasmata e riprogettata. Da quella posizione, a metà tra lo sguardo disincarnato e divino del satellite, e quello terreno e incorporato con cui attraversavo le strade ogni giorno, mi parve di intuire quali fossero i vettori che regolavano la brulicante vita urbana sotto ai miei occhi. Provai a ipotizzarne nuove direzioni e nuovi significati. Ogni singola porzione si mostrava malleabile. Pensai che, se solo avessi voluto, avrei potuto imporre all’intera città la mia volontà, così come aveva fatto chi, fino a quel momento, ne aveva governato i cambiamenti. Cercai di leggerne le intenzioni in tutte quelle configurazioni, così come apparivano al mio sguardo. Ma per quanto mi sforzassi, non fui in grado di capire se quei cambiamenti fossero stati in meglio o in peggio.
La cartografia che nasce dall'esplorazione delle edgland non è un dato puramente estetico, è la base per provare a imporre alla realtà una volontà in grado di trasformare l'esistente.
È per questo che ho scelto di non limitare il lavoro cartografico sulle zone limite della città di Bolzano alle pagine de Il velo.
Da qualche mese, per l'evento che concluderà la mia esperienza come membro dell'Art Club di Museion, sto coordinando il lavoro per la realizzazione di un video che ho pensato come ulteriore contributo a questa linea di ricerca.
Progettato per esplorare il senso di appartenza che lega a Bolzano alcuni dei suoi abitanti, il video esplora, attraverso l'occhio della videocamera del regista Armin Ferrari e l'orecchio del musicista Claudio Rocchetti, quattro quartieri (Casanova, Prati di Gries, Aslago, Europa) posti tutti, in un modo o nell'altro, in una posizione marginale rispetto al cuore dell'immaginario cittadino.
Arianna Lanzinger aveva ragione: la città era viva, si evolveva. Ai margini meridionali della conurbazione apparivano chiazze di edifici di nuova costruzione. Scorrendo a ritroso la ricostruzione digitale potevo vederli sparire, inghiottiti dalla campagna che in realtà erano loro a mangiarsi. La zona industriale – adesso si chiamava “produttiva” – erodeva i frutteti. Si espandeva, megastore dopo megastore. Ne era apparso uno, TopHaus, dedicato ai prodotti per l’edilizia; accanto, il punto vendita Obi più esteso del Norditalia; poco più in là, un centro commerciale ancora da venire. Le cubature riflettevano la riorganizzazione del capitale da industriale a produttivo, quindi a commerciale. Tesi, antitesi, sintesi. Ormai sembrava non producesse più nessuno, l’economia si era fatta logistica e stoccaggio e flussi di denaro, merci e uomini. Più a ovest, verso Merano, anche i quartieri Firmian, Casanova e Prati di Gries consumavano suolo che un tempo era campagna e al loro interno davano origine a nuove, inedite stratificazioni sociali. Quelle isole ballardiane, sorte là dove i vecchi quartieri periferici si sfarinavano nei campi, erano state colonizzate dalla giovane borghesia bolzanina. Passeggiando attraverso quei palazzi, finivo puntualmente per chiedermi come avrebbero reagito le giovani mamme e papà che li abitavano, quando la violenza avrebbe cominciato a scorrere nei loro fragili idilli.
Concluse nel corso della primavera, le riprese del video ci hanno portati ad attraversare le strade di quei quartieri. Osservandone le configurazioni attraverso il filtro dell'obiettivo, la nostra percezione di quei luoghi si è fatta più affilata, facendo emergere quei dettagli obliterati sotto al velo dell'abitudine.
Dalla qualità dell'aria ai giochi di luce, dalle concrezioni di forme alle trame dei suoi e dei rumori è il dato atmosferico di quegli spazi che è emerso dalle nostre derive e, insieme a lui, una comprensione più profonda di come questo dato determini le forme di vita che prosperano al loro interno.