"Fratellanza, aggressioni e omicidi: la storia nascosta della guerra tra biker dell'Alto Adige" su Vice

Storia dimenticata della guerra tra bande di motociclisti che ha insanguinato l'Alto Adige.

"Fratellanza, aggressioni e omicidi: la storia nascosta della guerra tra biker dell'Alto Adige" su Vice

All'inizio degli anni '00, l'Alto Adige fu il teatro di una guerra tra bande di motociclisti che lascito sul terreno un morto, il capo della sezione locale dei Bandidos e molte domande ancora irrisolte. Vice mi ha dato la possibilità di raccontare questa storia in un lungo reportage, condito da interviste con alcuni dei protagonisti di quella vicenda.

A molti, i nomi di Bandidos e Hells Angels—specialmente quest'ultimo—ricorderanno Hunter S. Thompson e il massacro di Altamont. Ai più tamarri sottotrame alla Sons of anarchy, e a tutti gli altri, probabilmente, l'immagine vaga e sfocata di un gruppetto di uomini white trash non più giovanissimi e vestiti di pelle, intenti a suonarsele di santa ragione in un parcheggio grigio e polveroso fuori da un qualsiasi strip bar della provincia americana più incazzata.
Fratellanza, aggressioni e omicidi: la storia nascosta della guerra tra biker dell’Alto Adige
Anche se adesso non se lo ricorda nessuno, dieci anni fa c’è stata una guerra per il controllo del territorio dell’Alto Adige tra i gruppi di biker degli Hells Angels e i Bandidos.

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25/02/2024 - Data l'imminente chiusura di Vice riporto l'articolo integrale

Anche se adesso non se lo ricorda nessuno, dieci anni fa c'è stata una guerra per il controllo del territorio dell'Alto Adige tra i gruppi di biker degli Hells Angels e i Bandidos.

Di fatto, l'Alto Adige lo raccontano soltanto gli uffici marketing e le pro loco. È per questo motivo che tanto chi ci abita quanto chi viene da fuori tende a immaginarsi la zona come un impasto tra la gaiezza asburgica di Tutti insieme appassionatamente e il rigoroso efficientismo di Angela Merkel. E probabilmente è anche per questo che, ad aprile del 2003, una famiglia della Val di Non aveva deciso di farsi una gita nel Burgraviato, un comprensorio nei dintorni di Merano. A un certo punto di questa gita, però, mentre la famiglia era ferma in una stazione di servizio, dei biker erano piombati all'interno della vettura sfasciandola a colpi di mazza da baseball.

"Non certo la migliore pubblicità per il club, nel giorno dell'inaugurazione della nostra nuova sede," mi racconta, senza riuscire a trattenere una risata, uno dei biker che quella domenica di dodici anni fa ha terrorizzato l'incredula famiglia. Lo incontro un sabato di inizio agosto nello studio di tatuaggi dove lavora, e la prima cosa che mi chiede, quando mi presento, è cosa sto facendo e perché sto scrivendo questo articolo. Immediatamente dopo ci tiene a specificare che i biker non parlano volentieri con i giornalisti ed è per questo motivo che mi chiede di rimanere anonimo.

"La loro macchina era identica a quella di uno degli 81 che avevamo visto gironzolare vicino alla nostra sede," continua ricordando l'aggressione. "Quando apri un prospect chapter dei Bandidos in un territorio controllato dagli Hells Angels non sai mai cosa può succedere e non sei mai abbastanza prudente. Però i giornalisti, dopo averci dato addosso, si sono scordati di scrivere che la macchina alla fine gliel'abbiamo ripagata. Abbiamo raccolto dei bei soldi tra di noi e abbiamo pagato per i danni e lo shock."

A molti, i nomi di Bandidos e Hells Angels—specialmente quest'ultimo—ricorderanno Hunter S. Thompson e il massacro di Altamont. Ai più tamarri sottotrame alla Sons of anarchy, e a tutti gli altri, probabilmente, l'immagine vaga e sfocata di un gruppetto di uomini white trash non più giovanissimi e vestiti di pelle, intenti a suonarsele di santa ragione in un parcheggio grigio e polveroso fuori da un qualsiasi strip bar della provincia americana più incazzata.

Ma qui siamo in Alto Adige, e Bandidos e Hells Angels stonano con la scenografia a base di Dolomiti, vigne e Carolina Kostner. Sarà per questo che in pochi ricordano che la tragicomica aggressione del 2003 è stata solo il casus belli di quella che potrebbe tranquillamente chiamarsi la "Piccola Guerra dei Biker del Nord." La definisco Piccola perché non ha mai raggiunto i picchi di violenza e dramma della più famosa "Grande Guerra dei Biker del Nord", una faida che dal 1994 al 1997 ha visto scontrarsi—tra Danimarca, Finlandia, Norvegia e Svezia—diversi motorcycle club rivali, facenti capo agli Hells Angels e ai Bandidos. In palio c'era il controllo del territorio, costato 11 omicidi, 74 tentati omicidi e 96 persone ferite in un'impressionante escalation di scontri armati che registrarono anche l'uso di armi da guerra, tra cui granate e un lanciarazzi.

Hells Angels e Bandidos sono rivali praticamente da sempre. Entrambi fanno parte dei cosiddetti Big Four, ovvero i quattro motorcycle club più importanti al mondo; entrambi si considerano one-percenter, ovvero rientrano in quell'élite di club considerati fuorilegge, ed entrarne a far parte significa dover sostenere delle prove e passare attraverso un preciso cursus honorum. Non ci sono scorciatoie: prima sei un prospect, poi diventi affiliate e solo alla fine puoi vantarti del titolo di full member con tutti i benefit che questo comporta.

Che questo cursus honorum il mio interlocutore lo abbia attraversato tutto per intero lo capisco quando mi accorgo che veste le insegne del suo club. Non indossa solo una maglietta con il nome Bandidos ben in vista, su cui sono stampigliate le patch one-percenter. Il suo marsupio ha due toppe e su una di esse c'è scritto "Red&Gold," i colori del club. Al collo, infine, porta una collana dorata con una medaglietta su cui è inciso il simbolo dei Bandidos, il Fat Mexican. Non ne sono sicuro, ma ho come l'impressione che stia indossando quei simboli perché ci sono io, come se dovesse dimostrarmi oltre ogni ragionevole dubbio con chi sto avendo a che fare.

Gli domando cosa ha trovato nei Bandidos che non ha trovato altrove, cosa significa per lui far parte di una realtà la cui storia è lontana anni luce da quella del luogo in cui è nato e vive. La sua risposta è secca: "La fratellanza. Il senso di appartenenza a qualcosa che è più grande di me e la possibilità di sentirmi a casa in qualsiasi parte del mondo. Posso andare in Germania o in Thailandia, ma se c'è una club house dei Bandidos avrò sempre un tetto sotto cui dormire, una moto per andare in giro e dei fratelli con cui condividere tutto questo. Paul era uno di loro."

Il riferimento è a Paul Weiss, morto la notte del 19 settembre 2003 nella gola di Lana, una ferita di roccia scavata dalle acque del Rio Valsura. Il corpo era stato trovato dai militari della stazione locale dei carabinieri, crivellato da cinque colpi di pistola calibro .22. Poche ore dopo il ritrovamento, un altro uomo—Hubert Wieser—si era presentato al commissariato di zona per costituirsi. Per un titolista distratto, quanto successo quella notte avrebbe potuto essere derubricato alla voce "rissa tra balordi finita in tragedia". In realtà, la morte di Weiss è stata l'apice di una guerra iniziata qualche mese prima.

Paul Weiss, infatti, era il leader dei Bandidos altoatesini, e colui che aveva portato le insegne del club texano nel Burgraviato. Gli Angels—di cui Wieser era un pezzo grosso—erano in Alto Adige almeno dal 1995, e come prevedibile non vedevano di buon occhio l'apertura di un nuovo motorcycle club sul loro territorio, a maggior ragione se a farlo erano stati i rivali storici. I mesi successivi l'apertura del chapter dei Bandidos a Merano sono stati una continua escalation di tensioni tra le due bande. Sulla stampa locale si parlava di "Conto aperto tra 'Banditi' e 'Angeli'," con titoli come "Arrivano i biker, città sotto assedio" o "Quartiere blindato, fioccano le proteste," fino all'eloquente "La guerra mortale dei bikers."

Pochi giorni dopo l'episodio del distributore di benzina, venticinque Hells Angels erano stati fermati dalla Polizia nei dintorni di Marlengo prima di assediare una pensione della zona in cui era segnalata la presenza di alcuni Bandidos. L'immagine dei biker sdraiati a terra lungo la strada, sotto la minaccia delle armi spianate dei poliziotti, aveva occupato le prime pagine dei giornali locali colpendo non poco l'immaginazione dei rispettabili cittadini dell'Alto Adige.

Nel marzo del 2004, gli stessi cittadini avevano sollevato proteste per l'imponente apparato di sicurezza messo in piedi dalla Polizia per presidiare una festa organizzata dai Bandidos a Merano. Alla festa avevano preso parte quasi 100 motociclisti provenienti da Italia e Germania, controllati a vista da 60 tra carabinieri e poliziotti.

Ai cittadini di Merano la militarizzazione del quartiere e lo spiegamento di forze erano parsi eccessivi; forse avevano scordato che l'omicidio di Paul Weiss era avvenuto solo pochi mesi prima e che la tensione tra i due gruppi, da allora, non si era mai placata. Come in Scandinavia, anche in Alto Adige opinione pubblica e istituzioni non erano preparate e faticavano a capire la situazione.

"Della notte dell'omicidio, quando ho ricevuto la telefonata della questura, ricordo soprattutto una grandissima confusione," ricorda Donatella Marchesini, il pubblico ministero che rappresentò l'accusa al processo di primo grado. "Mi parlavano di Angels e di Bandidos e in quel momento non avevo la più pallida idea di chi o che cosa fossero. Quello che invece mi apparve immediatamente chiaro, fin dai primi istanti delle indagini, è che la linea difensiva sarebbe stata impostata sulla legittima difesa."

Siccome il colpevole c'era già, prosegue il pm, "quello che ci restava da fare era determinare la dinamica degli eventi, capire quello che era successo nella gola. Ma anche se siamo arrivati a delineare una verita giudiziaria, il modo in cui si sono realmente svolti i fatti oggi non è ancora del tutto chiaro e non credo che lo sarà mai. La verità la sanno soltanto le persone che erano presenti."

Il cuore del dibattimento, infatti, stava nel dimostrare come Paul Weiss fosse stato ucciso. Si era trattato di un agguato a sangue freddo, come sosteneva l'accusa? O Wieser aveva sparato per difendere la propria vita, come voleva dimostrare la difesa?

Di certo, c'era che la notte dell'omicidio nella gola di Lana c'erano quattro persone: Wieser, accompagnato dal suo Rottweiler, Paul Weiss, Manfred Werdofer e Armin Frei. Questi ultimi due, anche loro dei Bandidos, dichiararono di essersi incontrati con Weiss alla gola per organizzare un viaggio; ma nella loro auto sarebbero state ritrovate mazze, coltelli, spray urticante e un passamontagna di colore nero. Per la difesa di Wieser questa era la prova che i tre Bandidos avevano teso un agguato al rivale.

Dallo scoppio della guerra tra i due club, inseguimenti e pedinamenti sono all'ordine del giorno. Bandidos e Hells Angels si tengono d'occhio a vicenda e c'è sempre qualcuno pronto a reagire. Nell'agosto di quest'anno, quando viene confermata per gli Hells Angels di Bolzano l'accusa di associazione per delinquere, una delle motivazioni è proprio la loro capacità di organizzarsi telefonicamente e in tempi molto rapidi, come mi conferma Marchesini durante l'intervista.

Solo contro tre, Wieser sembrava proprio la vittima di un agguato. Eppure, per l'accusa questa tesi non reggeva. L'abitazione di Weiss distava solo poche centinaia di metri dalla gola di Lana, e le continue passeggiate di Wieser erano, per l'accusa, la dimostrazione di una provocazione costante e di una continuativa minaccia del leader degli Hells Angels attua ai danni del rivale.

Ai dubbi su come si fosse arrivati all'incontro letale tra i quattro, si aggiungeva il mistero della pistola: la calibro .22 non è mai stata ritrovata. Senza non era possibile stabilire a chi appartenesse l'arma del delitto, ed era molto difficile valutare chi, tra vittima e assassino, si fosse recato alla gola con una chiara volontà omicida.

Wieser sosteneva di averla gettata nel Rio Valsura, ma l'accusa non ne era convinta. Dal momento della sparatoria all'ingresso in commissariato erano passate diverse ore, nelle quali Wieser—lo dimostrano i tabulati telefonici—aveva chiamato dal cellulare alcuni membri degli Hells Angels. Per il pm, è in quel lasso di tempo che Wieser si sarebbe coordinato con i membri del club per far sparire l'arma.

La difesa, invece, sosteneva che l'arma fosse nelle mani di Weiss e che Wieser, sentendosi in pericolo di vita, avesse reagito aizzando il suo cane contro gli aggressori. Durante la colluttazione scatenatasi dopo l'attacco del Rottweiler, poi ucciso con un colpo d'arma da taglio al cranio, Wieser sarebbe riuscito a strappare dalle mani di Weiss la pistola; proprio mentre i due stavano lottando, infine, sarebbero partiti i cinque colpi che freddano il capo dei Bandidos.

Per l'accusa questa ricostruzione faceva acqua da tutte le parti. Marchesini sostiene invece che Wieser avesse incontrato i tre Bandidos nella gola, che questi fossero armati o no importa poco, perché i quattro si erano limitati a scambiarsi minacce e insulti. È a quel punto che Wieser si sarebbe allontanato, prendendo la pistola, per poi tornare sui suoi passi e scaricare il caricatore della calibro .22 sul suo rivale, uccidendolo. E una calibro .22, specifica l'accusa, non ha potere letale—per uccidere una persona con un'arma del genere bisogna accanirsi.

Alla fine del processo, e per tutti i successivi gradi di giudizio, fu la verità dell'accusa ad avere la meglio, con Hubert Wieser condannato a 22 anni di prigione. Da allora sono passati dieci anni esatti.

Il difensore di Wieser è l'avvocato Flavio Moccia, che a Bolzano è una celebrità. I suoi modi di fare sono talmente caratteristici che è finito anche nella sigla delle due puntate che la trasmissione Un giorno in pretura ha dedicato all'omicidio di Paul Weiss. Da lui mi interessa sapere soprattutto che tipo di persona è Hubert Wieser. A guardarlo in video o nelle foto mi pare un vichingo, uno che non spezzi facilmente.

"Wieser è un uomo straordinariamente intelligente," inizia Moccia. "Pensi che quando ne abbiamo richiesto la perizia psichiatrica—che ci serviva a evidenziare la situazione di panico che si era creata in occasione del delitto—ne abbiamo fatto calcolare il quoziente intellettivo. Il risultato è stato di 130, ben al di sopra della media. È stato senza dubbio uno dei migliori clienti che abbia mai avuto. Una persona acuta, capace di capire al volo ogni situazione. Non il classico criminale da strada che nega la realtà. Wieser è sempre stato consapevole di quello che aveva fatto. Ha collaborato attivamente a definire la strategia difensiva che abbiamo seguito durante il dibattimento."

Riguardando le immagini del processo alla luce di queste parole, in effetti, la figura di Wieser appare sotto una nuova luce. L'inconsapevolezza si muta in calcolo, lo sprezzo si trasforma in disciplina, la durezza diventa decisione. "Purtroppo per lui," continua Moccia, "il suo unico errore gli è costato una condanna pesante; sono convinto che senza quella domanda la tesi della legittima difesa sarebbe passata."

La tesi difensiva, in effetti, era solida. La presenza di Wieser alla gola di Lana non sembrava essere premeditata. Inoltre l'uomo era solo contro tre avversari armati e la balistica era coerente con l'ipotesi che i colpi mortali potessero effettivamente essere stati esplosi durante una colluttazione. Le premesse per una condanna mite ci sarebbero tutte. Ma le cose andarono diversamente.

"Visto che l'intero processo si basava sulla forza di una ricostruzione sull'altra, avevo capito presto che il fattore psicologico avrebbe potuto essere determinante," spiega il pm Marchesini. "Per istruire l'indagine dovetti documentarmi sui biker e non solo sulle loro attività ma anche sulla loro storia. All'epoca, la Digos teneva già sotto controllo le gang di motociclisti e furono loro a introdurmi in quel mondo. Lessi il libro di Sonny Barger, che mi aiutò a capire meglio come pensano queste persone, quanto la struttura e le regole del club influiscono sui loro comportamenti. È così che sono arrivata a fare a Wieser quella domanda. Gli ho chiesto se durante lo scontro con Weiss avesse mai avuto paura, anche solo per un momento."

La risposta di Wieser era scontata: un Hells Angels non potrà mai avere paura di un Bandidos, neppure se la sua vita è in pericolo. "Ma senza il presupposto psicologico della paura," ricorda l'avvocato Moccia, "la legittima difesa viene a cadere. E la legittima difesa era la nostra unica strategia difensiva possibile."

Oggi Hubert Wieser sta scontando i 22 anni di prigione a cui è stato condannato nel carcere di Padova. Da qui scrive abbastanza regolarmente delle lettere, compone poesie e fa dei disegni che vengono pubblicati su bigredmachine.it, uno dei siti degli Hells Angels italiani. Per gli Angels di tutto il mondo Wieser non è solo un martire della causa, imprigionato ingiustamente, ma una vera e propria celebrità.

"Nonostante la condanna e le indagini che ne sono seguite, Wieser e gli Hells Angels sono stati i vincitori di questa guerra," conclude il magistrato. "Una guerra che aveva come premio l'Alto Adige, un territorio strategico per la sua caratteristica di ponte tra il mondo germanico e quello mediterraneo. Quello a cui abbiamo assistito in quei mesi è stato uno scontro per il controllo del territorio. Uno scontro da cui sono stati i Bandidos a uscire sconfitti."

Una lettura che, a suo modo, sembra confermare anche il Bandido che sono riuscito a incontrare. "La morte di Paul è stata un duro colpo per tutta la scena MC italiana. Molti hanno lasciato, perché a un certo punto dovevi scegliere da che parte stare. Non farlo poteva costare caro," mi spiega il biker.

"Prima che diventassimo dei Bandidos ci conoscevamo con gli altri, con gli 81, gli Hells Angels. Andavamo alle stesse fiere, alle stesse feste, ma per loro non va bene se i Bandidos aprono un chapter, perciò questi rapporti sono finiti," conclude il Bandido. "In ogni caso, con tutto quello che è successo non posso dire che mi stanno simpatici. Quello che hanno fatto noi non lo dimentichiamo, così come non abbiamo dimenticato Paul. Siamo stati vicini alla sua famiglia, perché i Bandidos non abbandonano un loro fratello. Ogni anno lo ricordiamo e cavalchiamo insieme in onore del bandido Paul. Non lo dimenticheremo mai."