Non sparate sul violinista: recensione di Just Play
Nel titolo di questo post compare la parola "recensione" ma quella che state per leggere non è una recensione a tutti gli effetti, piuttosto è una segnalazione.
C'è qualcosa di me in Just Play, documentario presentato circa un mese fa al Festival del cinema mediterraneo di Bruxelles.
Non ché io abbia avuto direttamente a che fare con la produzione del film, ma perché con le persone che hanno realizzato questo film ho condiviso una parte del mio percorso di studio presso l'Università degli Studi di Siena. Posso chiamarli amici e colleghi perché abbiamo calacato gli stessi corridoi, seduto nelle stesse aule, letto e discusso gli stessi libri, parlato, immaginato, litigato a volte.
Quindi vi parlerò del film e quando vi dirò che è bello e mi è piaciuto sappiate che si tratta di quella bellezza e quel piacere che nascono dallo scambio e dalla frequentazione tra le persone, e non abbiatene a male.
Il film deve molto al lavoro teorico, pratico e all'esempio di Marco Dinoi. Professore per alcuni di noi, coetaneo per altri, che ha insegnato a Siena fino al giorno della sua morte prematura. Dinoi realizzò nel 2008 un film Appunti per un lessico palestinese in cui andava alla ricerca di nuove immagini della Palestina. Immagini in grado di rompere quei circuiti di senso che dominano la scena, quando si parla di Medio Oriente.
Spero e non credo di fare torto a Just Play se ne paragono il progetto al lavoro di Dinoi, perché mi pare che siano dominati entrambi la stessa tensione alla ricerca di immagini nuove, di nuove connessioni, quadri e cornici.
Just Play racconta la storia di un'orchestra, un'orchestra fatta di musicisti palestinesi, nata sotto l'occupazione israeliana grazie all'impegno del violinista Ramzi Aburedwan, fondatore dell'associazione Al Kamandjâti, che opera per supportare la scolarizzazione e l'educazione dei giovani palestinesi.
Just Play significa "suonare, e basta", perché anche quella che sarebbe la cosa più normale per un ensamble di musicisti diventa, nel contesto della Palestina, una sfida contro le circostanze e un atto di resistenza al dispositivo dell'occupazione.
Il film mette in scena un cortocircuito estremamente produttivo tra la ricerca di immagini nuove e la tensione verso una normalità negata e desiderata allo stesso tempo dai protagonisti. Credo sia questo il pertugio che il regista costruisce per far sì che lo spettatore possa trovare un posto nel meccanismo del film, perché vi ci si installi dialogando con le immagini, facendosene carico.
In un mondo dove le immagini della nostra vita si fanno via via sempre più invadenti e sclerotizzate ripensare il nostro rapporto con esse è uno dei tanti, possibili atti di resistenza che possiamo sperimentare. Questo film ce lo consente...
Credits (scarica la cartella stampa)
Regia: Dimitri Chimenti
Ricerca e consulenza scientifica: Nicola Perugini
Fotografia: Vincenzo Cascone e Dimitri Chimenti
Montaggio: Maresa Lippolis
Sound recording: Francesco Zucconi
Produzione: Al Kamandjâti Association
Produzione esecutiva: Extempora