La magia d'inverno dei Mumin, gli strani troll di Tove Jansson
Rileggere Tove Jansson con mio figlio mi ha risvegliato un senso di meraviglia: la neve, il weird, e l’inverno che dobbiamo ostinarci a proteggere.
Tempo fa, in biblioteca, ho proposto a mio figlio di prendere in prestito Magia d'inverno, un romanzo della serie dei Mumin di Tove Jansson.
Lo sguardo che mi ha rivolto quando gli ho mostrato la copertina non era affatto convinto. “A me piacevano molto questi libri alla tua età,” gli ho detto per incuriosirlo. Ha scrollato le spalle e mi ha risposto un “va bene” che somigliava più a un “fai un po’ come ti pare”.
Il suo scetticismo è durato quasi un mese. Poi, una sera, dopo aver finito tutti gli altri libri che avevamo preso in prestito insieme a Magia d’inverno, lo abbiamo finalmente iniziato.
Non era ancora autunno pieno, ma la sua camera era fredda. I termosifoni erano spenti, così come tutto l’impianto di riscaldamento del palazzo.
Prima di sederci ai piedi del suo letto, dove leggiamo di solito, ci siamo avvolti in una copertina. Abbiamo spento il lampadario e, tra di noi, abbiamo sistemato la luce che gli fa compagnia la notte.
A quel punto ho iniziato a leggere le prime parole:
Il cielo era oscuro, quasi nero, ma la neve brillava azzurra nella luce lunare.
Il mare dormiva sotto il ghiaccio, e giù nel profondo, alle radici della terra, non v’era bestiolina addormentata che non sognasse la primavera. Ma ci voleva ancora parecchio, perché la primavera arrivasse, infatti l’Anno Nuovo non aveva percorso che un brevissimo tratto del suo cammino.
Nel punto in cui la Valle cominciava a salire dolcemente verso le montagne, s’intravedeva una casa sepolta nella neve; sembrava disabitata e, più che una casa, assomigliava a una buffa montagnosa di neve. Accanto le scorreva l’ansa del fiume, nero come la pece tra le sue rive ghiacciate; la corrente, impetuosa, riusciva ad aprirsi una strada tra i ghiacci durante tutto l’inverno. Ma nessuna impronta attraversava il ponticello e da tempo la neve ammucchiata intorno alla casa non era stata rimossa.
Ti è mai capitato di amare tanto un libro da bambino che, a un certo punto, da adulto, ti viene voglia di rileggerlo e scopri che è, semplicemente, un capolavoro?
“Ma questo libro è un capolavoro!” è proprio quello che ho pensato leggendo i paragrafi che ho copiato qui sopra.
Jansson apre il libro con l’immagine del cielo notturno, quasi nero, contrapposto al bagliore azzurro della luce lunare riflessa dalla neve.
Poi ci porta sotto alla coltre di ghiaccio dove dorme il mare - davvero dorme, il mare d’inverno? - e più giù ancora, alle radici della terra, dove anche ogni bestiolina dorme, sognando la primavera.
A quel punto torniamo in superficie, nella valle dei Mumin.
La valle è descritta inanellando uno dopo l’altro una serie di riferimenti paesaggistici - la casa, il fiume, il ponticello - che al lettore già introdotto risultano familiari; a chi vi si avvicina per la prima volta offrono, invece, la mappa mentale per orientarsi nel mondo narrativo..
Quest’ultimo, se lo desidera, può verificarla sulla mappa riportata all’inizio del libro. Ho sempre pensato che fosse stata quella de Lo Hobbit la mia prima mappa fantastica. Invece dev’essere stata quella della valle dei Mumin.
Giusto il tempo di dirci che in quel paesaggio non v’è traccia di anima viva e la penna di Jansson ci porta dentro la casa dei Mumin, addormentati. Qui,
il silenzio regnava profondo, nell’attesa.
Ogni tanto qualcuno sospirava e si rannicchiava più comodamente nella conca del materasso.
Il raggio della luna vagò dalla sedia a dondolo alla tavola del salotto, si arrampicò sulle spalle d’ottone delle testiere dei letti e infine splendette proprio in faccia al troll Mumin.
E qui successe qualcosa di assolutamente nuovo, che mai si era verificato da quando il primo Mumin era caduto in letargo: il troll Mumin si svegliò senza riuscire più ad addormentarsi
Ti ricordi cosa significa svegliarti di notte, quando sei ancora un bambino? Nemmeno io, finché non ho letto questo passaggio e quelli immediatamente successivi, in cui il piccolo Mumin esplora la casa vuota, che gli trasmette estraneità e familiarità allo stesso tempo.
Mark Fisher lo chiama weird ed è la parola perfetta per descrivere quello che accade subito dopo. Mumin imbocca la porta di casa e scopre qualcosa che non aveva ancora mai visto: la neve.
Una ventata di aria gelida lo accolse, togliendogli il respiro.
Scivolò rotolando fin sul cornicione del tetto e di qui il troll Mumin, solo e abbandonato, sprofondò nel primo mucchio di neve della sua vita.
[...]
Una sorta di grigio chiarore avvolgeva la Valle; una Valle non più verde, ma bianca. Quanto un tempo vi si era mosso, s’era fatto immobile. Il brusio della vista era scomparso. Ogni punta era stata smussata.
“È la neve”, mormorò il troll Mumin. “La mamma ne aveva sentito parlare e la chiamava neve”.
[...]
Intanto il troll Mumin, procedendo a fatica nella neve, era giunto al fiume. Era lo stesso fiume che d’estate scorreva trasparente e allegro nel giardino dei Mumin, ma quant’era diverso ora! Le acque indifferenti e scure appartenevano a quello strano mondo dal quale il troll si sentiva escluso.
Per ritrovare qualcosa di familiare che lo rincuorasse, cercò con lo sguardo il ponte e la cassetta della posta. Quella non era mutata; sbirciò dalla fessura, ma non vi era altro che una foglia secca senza un solo rigo.
All’odore dell’inverno di era già abituato e non lo incuriosiva più.
Osservò allora il cespuglio di gelsomino, ch’era tutto un intrico di rami spogli, e pensò terrorizzato: “È morto. Tutto il mio mondo è morto mentre dormivo. Questo nuovo mondo appartiene a qualcuno che non conosco, forse a Morra. Non è un mondo da Mumin”.
È da quattro anni che a Bolzano non nevica. Non sono nemmeno sicuro di ricordarmi cosa si prova ad addormentarsi mentre fiocca e a risvegliarsi in un mondo avvolto dalla candida coperta della neve.
Un mondo che, ancora una volta, oscilla tra il sollievo di riconoscerlo come familiare e l’inquietudine che sia cambiato per sempre.
Un mondo “strano”, a cui Mumin non appartiene ma che appartiene alle altrettanto strane creature che lo abitano. La Piccola Mi e Too-Ticki, una sorta di spirito dell’inverno che abita nel capanno sulla spiaggia della famiglia Mumin.
È insieme a loro che il piccolo troll sopravviverà alla più strana, e letale, creatura dell’inverno:
Di lontano, camminando sul ghiaccio, si avvicinava la Signora del Gelo. Era bianca come di cera, ma se la si osservava attraverso il riquadro di destra della finestra sembrava rossa, attraverso quello di sinistra, verde pallido.
Improvvisamente il troll Mumin sentì che il vetro era diventato talmente ghiacciato da far male, e ritirò spaventatissimo il muso.
[...]
Ora la Signore dal Gelo passava proprio accanto al capanno. E dovette gettare uno sguardo attraverso la finestra, perché uno spiffero gelato attraversò improvvisamente la stanza e fece impallidire per un attimo la stufa arroventata. Poi passò oltre.
[...]
La Signora del Gelo era adesso tra i giunchi, voltando loro le spalle, e si chinava sulla neve.
“È lo scoiattolo” mormorò Too-Ticki: “si è dimenticato che doveva rimanere a casa”.
La Signora del Gelo volse il suo viso stupendo allo scoiattolo e lo solleticò distrattamente dietro un’orecchietta. Lui la guardava fissamente nei freddi occhi azzurri. Come stregato. La Signora del Gelo gli sorrise e passò oltre.
Ma si lasciò dietro quello sciocco di uno scoiattolo duro stecchito, con le sue quattro zampette in aria.
Il passaggio della Signora del Gelo è il momento più profondo e drammatico del romanzo. Arriva poco dopo l’inizio, più o meno a un quarto del libro.
In un certo senso è il punto che prepara e precede l’alba, quello in cui la notte appare più nera e priva di speranze.
Da lì in avanti, per il piccolo troll Mumin, sarà un crescendo di scoperte che lo porterà ad amare quella stagione sconosciuta che, oggi, nel mondo reale, siamo chiamati a proteggere, per non rischiare di perderla per sempre.
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