Le illusioni "no effort" dell'IA

Lo sforzo è una componente fondamentale nell’addestramento di un’IA. Fingere che non lo sia rinforza il miraggio dell’automazione cognitiva totale.

Paesaggio marino con emoji.
Enrico Dedin - The photo hunters (frame)

Lo spin sull'IA mi toglie ossigeno. Ogni giorno spunta un aggettivo nuovo, un'iperbole inedita che esalta le magnifiche sorti e progressive di questa tecnologia.

“Intersezionale”, “abilitante”, “non abilista” alcune delle etichette più recenti che mi è capitato di vedere nel feed. Su quest’ultima definizione vorrei fermarmi un istante.

Chi la sostiene argomenta che legare il valore di un lavoro alla quantità di sforzo che esso richiede sia privilegio di chi gode di integrità fisica e mentale. Un modo per imporre uno standard di "normalità" a chi tale integrità non la possiede.

È un ragionamento sensato, ma la domanda che mi pongo è la seguente: davvero l'IA è uno strumento “senza sforzo”?

Mentre scrivevo questo post ne è uscito uno in cui Federico Nejrotti racconta il suo rapporto con Arturo, l’assistente di scrittura che gli ha “rotto il cervello”.

Ad Arturo Federico ha dato vita con Claude, l’IA generativa di Anthropic, durante un delirio febbricitante. Il parto di Arturo avviene tra nubi di “monossido di carbonio pompato dalla stufa a legna della casa che mi dà alla testa”.

Federico è “galvanizzato”, gli “sembra di aver scoperto il fuoco, o di aver elaborato una fiala di un virus letale”. I suoi amici gli “chiedono cosa stia facendo, tutto il giorno piegato sul laptop”.

È un racconto di possessione in cui la sua “identità assume connotazioni sciamaniche” e, come tale, compie l’impresa alchemica di partorire una serie di doppi artificiali, che “passano dall'essere repliche meccaniche del ritmo narrativo della mia scrittura a homunculus organici che, a partire da pochi miei input, fanno emergere spasmodicamente scritti che parlano di me, delle mie idee, del mio modo di pensare e di scrivere. Ma che non ho scritto”.

Immagini e lessico lasciano intendere in modo aperto che tutto si svolge in una dimensione dominata da sforzo mentale e fatica fisica, acuiti dalla febbre che brucia il virus nel corpo di Federico.

Non mi stupisce: ogni rito di possessione lascia svuotato chi lo compie.

La mia esperienza è simile, anche se molto meno intensa: mi ci sono voluti sei mesi di addestramento e una certa dose di studio per ottenere risultati accettabili dall’account di ChatGPT che pago a OpenAI e che non credo battezzerò mai.

Lo ammetto, continuo a pensare che per quello che faccio esperienza e intuizione siano guide migliori dell'intelligenza artificiale, quindi non mi sono sforzato più di tanto.

Dopotutto, mi sono detto, se questa tecnologia è davvero “abilitante” come si dice non avrò bisogno di grandi risorse per ottenere da lei le illuminazioni che promette.

E invece no: per accendere un lumicino ho dovuto sforzarmi.

“Scemo tu”, dirai: bastava seguire uno dei tanti corsi proposti da chi fa spin sull'IA. Vero, dico io, ma se qualcuno vuole farsi pagare per spiegarmi come funziona qualcosa, mi sorge più di un dubbio sulla natura abilitante dello strumento in questione.

Al limite sarà la formazione a essere abilitante, non tanto lo strumento. E anche la formazione richiede una certa dose di sforzo, per essere efficace.

Come mai di questo sforzo negli spin non sembra quasi mai esserci traccia?

Non solo, l'idea che usare l'IA non richieda sforzo mi sembra in contraddizione con un altro spin piuttosto diffuso, quello per cui lo slop - il fare allucinatorio con cui le intelligenze artificiali provano a compiacerci quando non sono in grado di soddisfare le nostre richieste - non sia colpa della tecnologia ma degli umani che la usano senza saperla usare.

Tu, sei stato tu, tu con il tuo prompt!

Battute grevi a parte, ho un'impressione; per quanto elevati nell'intenzione, certi discorsi sorvolano sul fatto che anche le IA hanno bisogno di una certa quantità di lavoro cognitivo per restituire risultati accettabili.

Accade perché l'apprendimento e la creazione sono attività che richiedono sforzo per essere eseguite. Avvengono entrambe nella dimensione della durata - Bergson, anyone? - sono intensive più che estensive.

Quando racconto lo Zettelkasten, che è una forma analogica di automazione della scrittura, sono sempre trasparente nel dire che la sua curva di apprendimento è ripida, che cambiare le proprie abitudini di lettura per ridurre il tempo tra essa e la scrittura è faticoso e che il metodo richiede costanza e applicazione affinché i suoi benefici diventino evidenti.

Questo è un fatto, non un giudizio di valore.

Perché - è un'altra cosa che dico sempre - il modo in cui io svolgo quell'attività (prendendo appunti a mano durante la lettura e trasferendoli poi nella slpibox dentro all’app con cui la gestisco) è adeguato per me, ma potrebbe essere inefficiente per un'altra persona.

Chi legge molto in digitale, per esempio, può saltare diversi passaggi e snellire l'intero processo. Lo sforzo resta, ma cambiano la sua organizzazione e il suo impatto.

Riconoscere che esso è necessario per imparare o creare ma che ognuno di noi ha bisogno di condizioni diverse e peculiari per esercitarlo mi pare un modo più diretto per parlare del modo in cui interagiamo con le intelligenze artificiali.

Quello dell’apprendimento automatico resta un mito che la tecnologia, per quanto provi a farlo, non ha ancora sfatato.

E se invece di fingere che non serva il vero “abilitare” fosse imparare a capire come gestire lo sforzo umano, organizzativo e tecnico in modo funzionale alle caratteristiche di ognuno di noi?

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