Transizione senza politica? It’s a trap!

Il soluzionismo tecnologico è seducente; senza coscienza politica è un assegno in bianco al capitale.

Nuvole nel cielo all'alba.
Trevor Paglen - Untitled (Reaper Drone)

Una delle obiezioni che sento fare più spesso a chi fa notare l’elevato impatto ambientale delle IA generative è che si tratti di un effetto collaterale dell’immaturità del settore.

Per i tecnottimisti, quando i costi energetici saranno troppo elevati, le aziende dovranno per forza porsi il problema di come ottimizzarli e, così facendo, ridurranno anche l’impatto ambientale dei loro prodotti.

L’idea appare ragionevole: dopotutto, la prima cosa che faremmo, se iniziassimo a ricevere bollette troppo elevate, sarebbe iniziare a capire come ottimizzare e ridurre i nostri consumi energetici.

Peccato che tra il singolo cittadino e una grande corporation ci siano differenze sostanziali.

La prima, più importante, il diverso potere negoziale che, a differenza del primo, le secondo possono costruire con i loro fornitori di energia, spesso grazie alla mediazione degli Stati.

Nei confronti di questi ultimi, infatti, le grandi aziende possono esercitare leve di negoziazione che a un semplice cittadino non sono concesse: il loro contributo al bilancio nazionale, i posti di lavoro che garantiscono (direttamente e tramite l’indotto), i vantaggi competitivi di carattere strategico.

Qualche anno fa ho lavorato con un’azienda che progetta, realizza, installa e gestisce impianti per il trattamento dell’aria.

Durante una riunione domandai al responsabile commerciale se tra i vantaggi delle loro soluzioni il risparmio energetico - e quindi economico - fosse una leva di vendita importante.

Con mia grande sorpresa mi rispose di no.

Notando il mio sguardo interdetto, mi raccontò che uno dei loro clienti, una delle realtà industriali più importanti della città, godeva di agevolazioni fiscali talmente convenienti sull’acquisto di energia da rendere superflua - dunque poco appetibile dal punto di vista commerciale - la prospettiva di un risparmio ottenuto grazie a una maggiore efficienza.

“Se devo vendergli un impianto nuovo,” mi disse “piuttosto gli racconto che l’aria più salubre riduce l’incidenza di malattie respiratorie e aumenta la produttività, perché riduce i giorni di malattia del personale.”

L’episodio mi è tornato in mente leggendo un tweet in cui veniva citata la frase di Laurence Tubiana, presidente della Global Solidarity Levies Task Force, un gruppo di lavoro internazionale che studia forme di tassazione solidale per finanziare la transizione ecologica.

Secondo Tubiana, “una linea aerea che viaggia da Londra fino alle Maldive paga meno tasse sul carburante di una famiglia che usa l’auto per portare i figli a scuola.”

Questo è il motivo per cui tendo a perdere le staffe quando una parte dell’ambientalismo contemporaneo subordina l’azione politica alle soluzioni tecniche.

Comprendo che l’ecoansia possa spingere a considerare l’azione politica come un processo lento, farraginoso, incapace di rispondere tempestivamente all’emergenza climatica; e in parte lo è.

Ma non credo sia una buona idea firmare un assegno in bianco all’industria delle rinnovabili, in nome di un soluzionismo tecnologico acritico e fideistico.

Come ogni altra industria in questo sistema economico, anche quella delle rinnovabili fa del profitto il proprio obiettivo, per quanto a lungo si sia raccontata come disinteressata e votata a salvare il mondo.

Per non parlare del fatto che le sue filiere sono saldamente nelle mani di un attore geopolitico tanto rilevante quanto ambiguo: la Cina.

Più la osservo da vicino, più la retorica con cui quest’industria si giustifica mi sembra simile a quella che ha alimentato l’utopia modernista della metà del Novecento.

Le rovine e i danni di quella retorica li conosciamo bene.

È per questo che, messo di fronte alla scelta - anche di fronte a un rischio potenzialmente esistenziale - tra il primato della politica e il soluzionismo tecnologico, continuo a schierarmi a favore del primo.

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