Scicli non è reale
Il diario dei tre giorni che ho passato in Sicilia, ospite della quinta edizione di MAST Festival.

“Il mondo dell’arte, dopo tutto, non è altro che una gigantesca agenzia di viaggio”. Alessandro e io ridiamo di gusto alla battuta.
La provinciale 42 scivola sotto le ruote dell’auto, una Fiat 600 ibrida nuova di zecca.
Bassi, bianchi e intervallati di tanto in tanto dai cancelli delle proprietà che si aprono su di essa, un’infilata di muretti a secco cinge la carreggiata.
Oltre quell’esile linea di demarcazione si stende il paesaggio della fascia trasformata della provincia di Ragusa: una distesa dai toni color terra, punteggiata dal verde della macchia mediterranea.
È il primo pomeriggio di un lunedì d’inizio agosto. Sono in viaggio da quella mattina, quando ho ritirato la macchina dal noleggio di fronte all’aeroporto di Lamezia Terme.
Da allora ho fatto solo due soste: la prima per attraversare lo stretto di Messina a bordo del traghetto che unisce la Sicilia al continente; la seconda all’aeroporto di Catania, dove ho recuperato Alessandro, in arrivo da Berlino.
La nostra meta è Scicli, dove quella sera, ospiti di MAST, saremo entrambi impegnati in un talk.
Al termine di un lungo rettilineo, che percorriamo quasi senza accorgercene, persi nelle nostre chiacchiere, la strada curva decisa verso destra.
Intorno a noi, il paesaggio sprofonda verso il basso, aprendo l’orizzonte. Improvvisa, Scicli appare, miracolosa come la visione di un santo.
Il borgo è adagiato sul fianco della valle lungo cui scivoliamo assecondando le spire dei tornanti. Lontano, sul fondo di quell’imbuto, il mare, luccicante sotto il sole delle tre, prolunga lo sguardo in direzione del suo infinito.
Pochi minuti dopo parcheggio l’auto sotto la Chiesa di San Bartolomeo, l’edificio barocco che dà nome al quartiere in cui si trova il mio alloggio. Poco dopo arriva anche Giovanni, il tempo di un abbraccio e la porta dell’appartamento mi si chiude alle spalle.
Fuori, Scicli pulsa di una luce dorata che sembra fermare il tempo. Dentro, mi sorprendo a sentirmi leggero, come se il viaggio avesse sciolto qualcosa. È una sensazione sospesa, un misto di attesa e spaesamento. Forse è questo lo stato d’animo giusto per entrare in un festival: non avere ancora risposte, solo la voglia di farsi attraversare.
I miei tre giorni da professionista del mondo dell’arte nel cuore della Sicilia iniziano così; arrivati a questo punto ha senso spendere qualche parola su MAST.
Acronimo che sta per musica, arte, sostenibilità e territorio, MAST è un festival culturale fondato da Francesco (architetto) e Anastasia (imprenditrice con un passato nell’industria musicale, o almeno così mi raccontano).
Nel corso delle cinque edizioni che hanno curato fino a oggi sono riusciti a portare in questo piccolo borgo artiste e artisti di livello internazionale, tra cui Deena Abdelwahed (che è una delle mie producer preferite); laboratori e workshop, tra cui il format di worldbuilding a cui lavoro da un anno; ma, soprattutto, a creare una rete di volontarie e volontari.
“Probabilmente è questa la cosa di cui vado più orgogliosa,” mi dice Anastasia quando riesco a scambiare con lei due parole per complimentarmi e ringraziarla di avermi dato la possibilità di essere lì.
“Senza il loro aiuto sarebbe impossibile organizzare MAST e, organizzandolo insieme a noi, queste ragazze e questi ragazzi imparano. Imparano a chiedere al comune le autorizzazioni, a gestire logistica e sicurezza, a confrontarsi con burocrazia e accoglienza.”
A chi non ha ancora raggiunto l’età per studiare all’università, MAST offre l’occasione di entrare in contatto con forme di espressione culturale all’avanguardia e di acquisire un know how che altrimenti sarebbe difficile ottenere.
“Se penso all’impatto che siamo riusciti a produrre” conclude Anastasia prima di venir risucchiata di nuovo nel vortice organizzativo dell’evento “la prima cosa a cui penso è proprio questa forma di “empowerment”.
A quelle parole non posso che annuire perché, guardandomi intorno, vedo il risultato di un lavoro, un impegno e una passione che in quel momento sembrano essere la regola e non l’eccezione.
Sì, perché nei momenti in cui ho modo di socializzare e parlare mi sembra che chiunque, in Sicilia, partecipi a un’iniziativa culturale, organizzi un festival o animi uno spazio dedicato a modelli sostenibili di lavoro creativo.
“Le cose brutte però le vedi se frequenti il territorio ogni giorno, tutto l’anno” mi dice una ragazza di Ragusa che ha partecipato a una delle sessioni del mio workshop.






Ascoltandola parlare delle difficoltà di chi prova a fare cultura in quel contesto le sue parole mi lasciano addosso un retrogusto amaro.
Per quanto essere ospite del festival mi garantisca un contatto privilegiato con la realtà locale, il ruolo che mi trovo a recitare resta quello del turista che arriva, prende e se ne va.
Perché, in fondo, io resto un visitatore passeggero: resterà qualcosa di questo mio breve passaggio?
E mentre mi faccio questa domanda sento la cassa dritta di un beat tekno venirmi incontro nel vicolo che ho appena imboccato.
Il sole è tramontato da poco più di un’ora e il cielo è screziato di riflessi color petrolio che fendono il blu scuro della notte d’estate che avanza.
Strano, penso, incongruo, perfino, che un bar della piazza da cui sbuca il vicolo suoni quella musica, sempre più forte e nitida man mano che avanzo.
Poi capisco o, meglio, la vedo. La sala prove è in un fondo che si affaccia sul vicolo. Dentro ci sono tre persone, due uomini e una donna. Uno di loro è seduto alla batteria, gli altri trafficano davanti a un portatile. Lancio un’occhiata veloce all’interno, tiro dritto ed esco dal vicolo.
Per l’ultima volta davanti ai miei occhi appare il profilo barocco della facciata della chiesa di San Bartolomeo. Le luci gialle dell’illuminazione pubblica ne accentuano l’effetto drammatico.
“Questo posto non è reale”, dico ad alta voce. Poi, timoroso che qualcuno possa avermi sentito, mi giro verso la piazza. Dietro di me non c’è nessuno e io sento di essere nient’altro che un puntino nel cuore della Sicilia, sopraffatto dalla bellezza senza fine di una qualsiasi sera d’agosto.
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