Montagne che franano
Il crollo del Birch e l’immaginario alpino al tramonto del sublime.

C’è una serie di immagini che in queste settimane continua a tornare nei feed dei social network. Sono le immagini della frana del ghiacciaio del Birch, nella Svizzera meridionale, che hanno suscitato e continuano a suscitare grande impressione.
Nonostante le autorità si aspettassero il crollo, l’entità della frana è stata impressionante: lo spostamento di materiale ha generato una scossa sismica di magnitudo 3.1 e Blatten, il paese ai piedi del ghiacciaio, è stato letteralmente spazzato via.
Nessun edificio ha potuto resistere alla forza con cui gli oltre 9 milioni di tonnellate di detriti hanno seppellito il paese, i cui 300 abitanti erano già stati evacuati da una decina di giorni.
Non è la prima volta in cui le immagini di un ghiacciaio che crolla circolano nella mediasfera, generando un forte impatto sull’immaginario collettivo delle persone.
Era già accaduto nel 2022, in occasione del distacco di un seracco di ghiaccio dal corpo della Marmolada, che era costato la vita a una decina di escursionisti.
Le elevate temperature di quei giorni avevano sottolineato, probabilmente per la prima volta, un evidente nesso di causa tra la frana e il riscaldamento globale di origine antropica di cui per molto tempo era stato complesso localizzare gli effetti.

Il modo in cui gli effetti del riscaldamento globale stanno diventando sempre più riconoscibili nella realtà materiale crea la consapevolezza che il paesaggio non sia un elemento dato, ma qualcosa di vivo e suscettibile di essere modificato.
Ciò che rende perturbante questa consapevolezza è che le modifiche in atto non sembrano dettate da una volontà umana. Sono invece imposte da forze imperscrutabili, che travalicano la nostra percezione e capacità di comprensione.
Questo è vero soprattutto per gli spazi di montagna la cui volubilità è oggetto di un attenzione crescente da parte dell’opinione pubblica.
Tuttavia non si tratta di una novità. L’instabilità della montagna fu una delle prime caratteristiche a colpire gli intellettuali illuministi quando si dedicarono alla scoperta delle Alpi intorno alla metà del Settecento.
Visto dalla pianura, lo spazio alpino appariva monolitico e immutabile, ma quando veniva osservato da vicino rivelava caratteri opposti.
Frane, crolli e smottamenti ridisegnavano di continuo la struttura del paesaggio alpino, di cui anche le condizioni meteorologiche erano soggette a una costante instabilità.
Infatti il tempo, in montagna, può cambiare rapidamente da un momento all’altro e, muovendosi in verticale nello spazio, è possibile incontrare condizioni climatiche anche molto diverse tra loro. Nelle vallate alpine il clima temperato dei fondovalle può convivere contemporaneamente con quello rigido delle vette.
Queste qualità del paesaggio influenzarono profondamente l’immaginazione di scienziati e artisti, che iniziarono così una vasta produzione di immagini da cui, col tempo, prese vita l’immaginario che ancora oggi costruisce il nostro sguardo sulle Alpi e le montagne.
All’interno di questo repertorio, quelle della valanga e della frana furono una coppia d’immagini che godette di un certa fortuna. In queste raffigurazioni trovava spazio la forza travolgente della montagna che, messa a confronto con la limitatezza dell’uomo, si stagliava in tutta la sua incommensurabile potenza.
Ne è un esempio il dipinto Una valanga sulle Alpi, del pittore francesce Philip James de Loutherbourg.
Sorpreso dalla furia della valanga, un piccolo gruppo di figure umane è colto dall’artista nel gesto di ritirarsi in preda al terrore di fronte alla slavina che si schianta rovinosamente pochi metri di fronte a loro, accecandole coi suoi algidi bagliori che, come folgori, diradano per un istante l’oscurità che avvolge la montagna.
Nel quadro Böcklin coglie la dimensione cosmica e terrificante di una natura fuori scala, che riempie d’orrore il cuore dell’uomo semplicemente dandosi senza alcun limite.
A quell’orrore, la cultura dell’epoca rispondeva attraverso l’articolazione del sentimento del sublime. Ovvero attraverso la consapevolezza che, collocando l’uomo a distanza di sicurezza dalla natura, le sue manifestazioni più estreme e pericolose potevano essere godute come uno spettacolo.
Il Viandante davanti al mare di nebbia di Friedrich altro non è che una figura di cornice che costruisce per lo spettatore la distanza di sicurezza di cui ha bisogno per poter contemplare la natura senza per questo doversi sentire parte di essa.

Mediato da un immaginario costruito attraverso gesti di appropriazione di natura coloniale, il paesaggio alpino ci è apparso stabile per oltre duecento anni.
Ma quella stabilità non era altro che un’illusione, una parentesi che si sta chiudendo per effetto dell’impatto che la nostra presenza ha sul mondo che ci circonda.
I segni del riscaldamento globale che agiscono sullo spazio alpino non ci ricordano solo che il paesaggio di montagna è per sua natura instabile, in variazione costante; ci dicono anche che siamo noi a causare quella instabilità.
Tale consapevolezza sembra annullare la distanza tra l’uomo e la natura costruita attraverso il sentimento del sublime lasciandoci privi di strumenti adeguati per pensare questo annullamento.
Servirebbe, mi è già capitato di scriverlo e lo scriverò ancora, un sentimento nuovo per sopravvivere alle sfide di un’epoca di orrori cosmici che si materializzano tutto intorno a noi.
Per farlo è di un antisublime che abbiamo bisogno. Un pensiero in grado di ridurre la distanza di sicurezza che abbiamo creato di fronte alla natura e ci aiuti ad andarle incontro, tornando a pensarci come elemento di un insieme di cui facciamo parte senza godere di alcun privilegio particolare rispetto a tutte le altre forme di vita.
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