Autobiografia di un incel
Un racconto mai pubblicato su un incel che pianifica ed esegue una strage, che la cronaca di queste settimane ha fatto riemergere dall'oblio.

Mercoledì 12 febbraio la sezione antiterrorismo della DIGOS di Bolzano ha arrestato un ragazzo di quindici anni. Secondo gli inquirenti era parte della 764, una rete terroristica neonazista con cui il ragazzo era entrato in contatto via internet.
La notizia mi ha fatto tornare in mente un racconto che ho scritto quattro anni fa, ambientato a Bolzano, che ha come protagonista proprio un ragazzo che, dopo essersi radicalizzato su internet, compie una strage nella sede di un'azienda.
Il racconto era stato proposto a una rivista, ma è rimasto inedito a causa di alcune imprecisioni nella descrizione della psicologia incel del protagoniste su cui non ho mai avuto l'occasione di lavorare per correggerle.
Tuttavia, data la coincidenza, lo pubblico con questo disclaimer e a una distanza di tempo ragionevole dall'accaduto perché sciacallare la realtà è una cosa da infami.
Hans Jörg accarezza l'impugnatura del fucile, strofina i polpastrelli sulla zigrinatura del calcio e ne apprezza la ruvidezza.
Mentre gli uomini delle squadre speciali irrompono nella stanza si chiede se quella sarà l’ultima sensazione che sentirà e anche se il corpo è crivellato dai colpi, ha ancora la forza di contemplare, intorno a lui, i cadaveri delle sue vittime, che giacciono a terra, nell’aria satura di cordite.
Accartocciati nell’ultimo, insopportabile spasmo di morte, assomigliano a un mucchio di manichini, gli arti piegati in posizioni grottesche, innaturali.
Il corpo umano è capace di contorsioni impressionanti, pensa, mentre le palpebre, pesanti, scivolano lente sugli occhi già velati.
Hans Jörg vorrebbe ricordarsi quella frase dell’italiano Pasolini che tanto amava, ha l’impressione che sarebbe perfetta per suggellare quest’istante, quello in cui avverte la morte calare su di sé.
Ma la mente è un motore che gira a vuoto, producendo un ronzio ossessivo che è una frase, una frase soltanto.
“Ancora non ho compiuto vent’anni”.
Francesca l’aveva conosciuta all’inaugurazione della nuova sede dell’azienda di suo padre. Poche settimane prima il vecchio lo aveva convocato nel suo ufficio.
“Adesso che hai terminato la scuola” gli aveva comunicato “voglio che tu mi stia accanto, in azienda. Devi imparare il mestiere così, un giorno, prenderai il mio posto.”
Hans Jörg aveva annuito ed era uscito dalla stanza. Il lunedì successivo aveva iniziato a recarsi in sede tutti giorni, cinque giorni a settimana.
Lei gli si era avvicinata durante l’evento. “Mi pare di non essere la sola ad annoiarsi” aveva notato ridendo.
Hans Jörg non l’aveva mai vista prima. Riuscì solo a pensare che era bellissima.
Lei allungò la mano. “Mi chiamo Francesca, tu devi essere Hans Jörg”.
Le rivolse un sorriso imbarazzato. Non sapeva come comportarsi, ne come rispondere. Pensava solo a come facesse lei a conoscere il suo nome.
“Sono la figlia di Ivano”.
Ivano era il titolare di un’agenzia che forniva servizi di comunicazione all’azienda del padre di Hans Jörg. Lui, che in azienda si occupava di marketing, aveva già scambiato alcune e-mail coi loro tecnici.
“Di cosa ti occupi?”, domandò Francesca.
“Seguo il marketing”. Hans Jörg prese una tartina dal buffet.
“Allora ci vedremo spesso. Tra qualche settimana inizierò a occuparmi di social nell’azienda di mio padre” e accennò un brindisi.
Fecero tintinnare i bicchieri e proseguirono la conversazione parlando di lavoro, come due adulti.
Finita la festa, prima di addormentarsi, Hans Jörg la cercò su Instagram e iniziò a seguirla. Il giorno dopo lei ricambiò il follow.
Quelle che seguirono furono settimane di conoscenza reciproca, che il social mediava attraverso lo scambio di reazioni, commenti e messaggi privati.
Di quelle immagini che Francesca postava nel feed e nelle stories Hans Jörg censiva ogni dettaglio: la risata tintinnante; la morbidezza dei capelli, che s’adagiavano sulle spalle come zucchero a velo; lo sguardo profondo, che accarezzava le cose riempiendole di dolcezza; la curva delle natiche, leggermente svasate, un poco cadenti, che lei armonizzava indossando scarpe dal tacco mai troppo aggressivo; il seno, appena accennato sotto alle camicette.
Montando insieme quei frammenti di vita, selezionati e resi pubblici sulla piattaforma, Hans Jörg andava costruendosi un’immagine ammaliante di brillantezza e intelligenza.
Di Francesca, che appariva così diafana, posh come l’avrebbe definita suo padre, non avrebbe mai detto potesse apprezzare certi libri raffinati di cui postava estratti e citazioni.
Eppure lei lo stupiva, rivelando ogni giorno un tratto inedito di un carattere che appariva sfaccettato e multiforme, come la realtà vista attraverso un cristallo.
Un giorno Hans Jörg le chiese di uscire. Lo fece così, senza pensarci troppo, senza aspettarsi nulla da quella frase buttata lì in un direct.
Gli sembrava la naturale evoluzione di quel rapporto, un gesto dovuto in ossequio a una qualche idea di cavalleria che nemmeno lui sapeva bene quando avesse maturato.
Francesca accettò; solo in quel momento Hans Jörg avvertì l’ansia risalire lungo il corpo, avvinghiandosi come edera alle sue membra, mano a mano che realizzava che quello sarebbe stato il suo primo appuntamento.
Si chiese come doveva comportarsi e, per un istante, pensò di chiedere consiglio a suo padre, ma scacciò quel pensiero immediatamente.
Il vecchio non avrebbe potuto essergli utile, con quei suoi modi antiquati e ridicoli.
Così si rivolse a YouTube.
Digitò nella barra di ricerca la query come corteggiare una ragazza?.
L’algortimo gli restituì il suo responso. Era il video di un certo Nicola Fabbrini. Nelle info del canale si definiva maestro di corteggiamento.
Hans Jörg cliccò l’anteprima. Una voce profonda e rassicurante riempì i suoi padiglioni auricolari, sgorgando come acqua da una sorgente.
“Le donne sono esseri eterei e complicati”, diceva il maestro, parlando con piena padronanza del suo corpo e del suo linguaggio.
“Possono apparire distanti, incomprensibili, ma con la giusta preparazione possono essere decifrate, craccate e conquistate. Il mio compito è insegnarvi i segreti per farlo con successo”.
Parole e gesti avevano qualcosa di amniotico avvolsero Hans Jörg, cullandone le fantasie.
Restò ad ascoltare il video per tutti e tredici i minuti della sua durata.
Alla fine, gli restò l’impressione di aver capito qualcosa di incredibilmente profondo. Di essere stato messo a parte di un segreto tanto semplice quanto, fino ad allora, distante e remoto.
Quando abbassò lo schermo del portatile era tardi. Aveva visto altri tre video.
Si sdraiò sul letto e, nella sua testa, ripassò le lezioni che aveva appena imparato.
Tutto gli suonava logico, inattaccabile.
Dopo il primo video l’algoritmo continuò a proporgli altri video sugli stessi argomenti, spalancandogli davanti agli occhi un universo di guru ed esperti, di cui prese a consumare avidamente ogni contenuto, scaricando e acquistando guide, podcast e webinar con cui si costruì un solido sapere. Così, quando Francesca si presentò all’appuntamento, Hans Jörg si sentiva pronto.
“Sono per te”, sorrise porgendole un mazzo di fiori. Francesca lo guardò per un istante prima di accettare l’omaggio.
“Sono davvero bellissimi, non avresti dovuto disturbarti”.
“Nessun disturbo, cosa desideri fare?”
“Pensavo di fare un salto da Zara. Ti va di accompagnarmi?”
“Con piacere immenso” rispose e le fece strada.
I due ragazzi s’incamminarono sotto i portici. Lui mantenne una distanza rispettosa, controllando lo spazio come gli avevano insegnato i maestri. Rise alle sue battute e rispose con cortesia alle sue domande.
Ascoltò. Misurò ogni parola, ogni gesto. Tutto era preciso, calcolato.
Ogni sua mossa era parte di un progetto più grande della somma delle sue singole parti. Hans Jörg si sentì lucido al punto che ebbe l’impressione di osservare la scena dall’esterno. Guardava i pezzi incastrarsi, mentre l’immagine del corteggiamento che stava mettendo in opera si componeva davanti ai suoi occhi. Aveva desiderato così tanto vivere quel momento all’ombra della perfezione che si sentì in estasi.
Dopo qualche ora, lui e Francesca si sedettero in un bar.
“Accomodati”. Le scostò la sedia.
“Grazie, gentilissimo” Poi ne prese un’altra e le si sedette accanto. Ordinarono un aperitivo, un analcolico. Erano venuti entrambi in auto e avevano la patente da poco. Nessuno di loro poteva rischiare di perdere punti.
Il drink però era deludente, sciatto, presentato male. Hans Jörg si preoccupò che quel dettaglio potesse rovinare la perfezione del momento, perché sapeva di essere arrivato all’istante decisivo. Socchiuse gli occhi e si protese verso di lei.
“Non posso”, mormorò, scostando la testa “io...io sono già impegnata.”
“Scusa”, abbozzò Hans Jörg, con un sorriso tirato sotto cui si nascondeva la tempesta che gli montava dentro, “mi piaci. Io...io ci ho provato. Ma ok, va bene così” disse alzando un po’ troppo il tono della voce che suonò come una crepa che si apre sulla parete di un bicchiere.
Finirono l’aperitivo nell’imbarazzo, smettendo di parlarsi. Hans Jörg pagò e accompagnò Francesca alla macchina. Prima di lasciarlo, lei lo abbracciò. Lo strinse forte, nascondendo la testa contro la sua spalle. Sembrava volesse sparire nel suo corpo.
Hans Jörg non sapeva cosa fare, una situazione del genere non era contemplata in nessuno dei video su cui si era preparato. Pensò che quello fosse il momento del bacio e provò di nuovo a insinuarsi verso le labbra di Francesca ma lei era inamovibile, non reagiva ai suoi movimenti.
“Io... è colpa mia”. Francesca si lasciò l’abbraccio, montò in auto.
Hans Jörg la guardò allontanarsi nel crepuscolo.
Hans Jörg tornò a casa. La sua testa era un turbine di interrogativi. Si domandò cosa avesse sbagliato, dove e quando. Era certo di aver seguito il sapere dei suoi maestri alla lettera. Nella sua mente continuava ad analizzare l’appuntamento. Ne riviveva ogni istante al rallentatore. Cercava l’errore, il bug, il dettaglio contro cui il suo piano era deragliato, schiantandosi contro il muro del rifiuto.
Ancora una volta si rivolse alla rete per capirlo, per provare a dare forma al suo dolore, esprimendolo in parole chiave.
Ricerca dopo ricerca, post dopo post, meme dopo meme, comprese di non aver mai avuto speranze. Quelli come lui - maschi beta - erano le vittime di una guerra di sterminio segreta. Il suo destino era una condanna perpetua alla solitudine.
Non c’è amore per i reietti, nessuna accettazione o dolcezza possibile.
I giorni passarono e le tinte del suo amore presero a virare verso i toni cupi del risentimento, dell’odio. Fu tra le nebbie di quella dimensione maledetta, sul gruppo Telegram di uno degli artisti del rimorchio che aveva seguito per prepararsi all’appuntamento con Francesca. che Hans Jörg lì incontrò per la prima volta.
Pubblicavano meme indipendentisti. Esercitavano su di lui una grande attrazione. Non li capiva, ma voleva capirli. Così aveva ricominciato a fare ricerche. Brandelli di parole chiave digitate sui motori, ricerche inverse d’immagini.
Era come una mappa, il gioco mentale di un serial killer che giocava a scacchi nel multiverso. Lui seguiva gli indizi, metteva insieme i pezzi e, tassello dopo tassello, il quadro generale prendeva forma.
Il mondo si ricreava davanti ai suoi occhi ancora una volta.
Tutto quello, e non era molto, che sapeva sulla storia del suo popolo e della sua terra era, irrimediabilmente, sbagliato, fasullo, posticcio.
Lo avevano sempre preso per il culo.
In quelle immagini che galleggiavano in rete c’era una verità a cui lui, pian piano, stava avendo accesso. Finì risucchiato nella vertigine e, alla fine del gorgo, li ritrovò.
Il loro umorismo era scorretto, la loro attitudine incendiaria, il loro umore malinconico.
Erano randagi che si erano riconosciuti uguali e pari. S’immaginavano di essere un gruppo clandestino e agivano come se lo fossero davvero. Si facevano chiamare “La cellula” e quando Hans Jörg li avvicinò, lo fiutarono a lungo: gli imposero delle prove.
Dovette shitpostare.
Dovette memare.
Dovette trollare.
Dovette doxare.
Dovette dimostrare che la sua era una fede sincera, solo così finì per essere accettato.
Post dopo post; thread dopo thread imparò a conoscerli. Erano diversi dai suoi amici, dai compagni del liceo con cui andava in giro in moto. I membri della banda erano cerebrali e anche lui voleva essere come loro. Complesso, sfaccettato, tenebroso.
Con loro poteva condividere la sua passione per il cinema impegnato.
Loro ricambiavano.
Discutevano di Uwe Boll, di Ulrich Seidl, di Bela Tarr, di Werner Herzog.
Ricorda che un giorno, dopo averla letta su un blog, Hans Jörg aprì una discussione a proposito di una frase di Pier Paolo Pasolini. Aveva chiamato il thread “Lo so, è un italiano di merda, ma sentite che dice”.
La frase parlava della morte. Del modo in cui essa opera, per la vita, una specie di montaggio. Fulmineo, lo definiva il regista, che faceva sintesi di tutti gli istanti e dava loro un senso. “Vista così,” aveva commentato Hans Jörg, “la morte appare del tutto desiderabile.”
“Sì,” gli avevano risposto gli altri della banda, “ma a patto che tu le dia un senso, uno scopo. Altrimenti è uno spreco.”
Da lì avevano iniziato a fantasticare sulla cosa su cui preferivano fantasticare, la guerra di liberazione, ed erano finiti a parlare di armi e del modo migliore per usarle.
Amavano così tanto le armi che anche Hans Jörg aveva finito per farsi una cultura in proposito e aveva persino sviluppato una specie di affezione, soprattutto per i fucili.
Quelle passioni collettive e segrete, l’esclusività con cui le coltivavano. Tutto questo li faceva sentire vicini, parte di qualcosa che trascendeva loro stessi in quanto individui.
Scelsero di andare insieme a un open air.
Quando si videro nel parcheggio si riconobbero facendo un segno con le mani; lo avevano studiato insieme per giorni.
Hans Jörg strinse le mani a quei ragazzi che vedeva per la prima volta nella vita reale. Si abbracciarono, si diedero cazzotti e pacche sulle spalle. Tra loro scorreva come una specie di tensione elettrica che si scaricava con quei gesti fisici, sempre al limite tra il cameratismo e la violenza.
Camminarono fino al prato del campeggio spingendosi l’uno con l’altro. Le risate aumentarono di volume a ogni spintone. Piantarono le tende e passarono il pomeriggio a spaccarsi la faccia.
Hans Jörg succhiava mignon di liquore. Le avevano fatte fare apposta.
“È una tradizione locale”, spiegò il più anziano del gruppo, un quarantenne che indossava la t-shirt di un vecchio gruppo trash metal.
“Ogni gruppo di amici, quando ci sono le feste, ha le sue mignon”.
Loro non erano da meno.
“Ogni gruppo le personalizza”.
Loro non erano da meno.
Avevano fatto stampare una foto sulle etichette. Raffigurava una vecchia baita, quella in era stato ucciso uno dei loro idoli, Alois Amplatz. Un puro. Uno che era andato avanti fino alla morte, sacrificandosi per la causa.
Sapevano tutto di lui.
Sognavano di essere come lui e quello era il modo in cui lo omaggiavano.
L'immagine era sgranata, di scarsa qualità. Prendeva una sfumatura cupa, inquietante. In quell'immagine, il rudere appariva ancora più misero e spettrale di quanto non fosse.
Hans Jörg tracannò quelle fialette una dopo l'altra fino a perdere il conto.
Il liquore - dice fosse vodka o, almeno, così era scritto, in piccolo, in fondo all'etichetta - era trasparente. Appariva ai suoi occhi in tutta la sua purezza chimica. Era del tutto umano, completamente artificiale.
Quando lo beveva bruciava la gola, le viscere e lo stomaco. Creava un bolo incandescente che calava, lento, dall'alto verso il basso. I vapori della combustione risalivano al cervello attraverso il sistema vascolare. Annebbiavano la percezione, ottundevano i sensi; finrono per donare a tutti una baldanza che, altrimenti, non avrebbero mai avuto, perché in fin dei conti non erano altro che un gruppo di nerd.
A un certo punto, non saprebbe dire perché, si alzarono. Sembravano mossi da un comando telepatico. Nessuno aveva detto andiamo, ma tutti loro stavano andando, come se fossero attraversati da un'onda, da un fluido che li legava, li pervadeva e li animava.
Si diressero sotto il palco.
Compatti, uniti.
Erano una cosa sola: “la cellula”.
Andarono a fare mosh pit. Erano così ubriachi che nemmeno s’accorsero di chi stesse suonando. Non gli importava.
Metal? Rockabilly? Ska? Punk? Non lo sapevano e non contava nulla.
Andarono sotto il palco e pogarono.
Pogarono con foga, con furia.
Intorno a loro si aprì un varco, come un cerchio tra la folla.
Erano pazzi. Violenti. Facevano paura.
La sensazione li inebriò. Sentirono di far parte di qualcosa di onnipotente e malvagio.
Erano peeericolooosiiii.
Hans Jörg si sbracciava e si dimenava. Lo sguardo perso, velato, spento. Il corpo che si muoveva in automatico, programmato.
Era quello che dovevano fare, ciò che la tradizione imponeva. Una tradizione non scritta. Il retaggio delle bande.
Una sequenza di gesti ed eventi tramandata nei racconti, o per imitazione. Tutti loro lo avevano visto fare già mille volte. E lo fecero ancora. Poi, la musica finì, tornano alla tenda e bevvero ancora.
Quando spuntò l’alba stavano ancora bevendo. Avevano bevuto così tanto che ormai non erano nemmeno ubriachi. Si sentivano addosso un senso di lucidità ottusa, con l’emicrania come costante.
Ad Hans Jörg pareva di galleggiare. Tutto gli appariva morbido, come se i confini delle cose sfumassero e si perdessero ai limiti del suo campo visivo.
Il metallaro si alzò “venite con me, vi faccio vedere una cosa”.
Camminarono in mezzo alle tende. Erano i soli a essere svegli.
Arrivarono al parcheggio. Il loro compagno si avvicinò all’Ape con cui era venuto dalla Val d’Ega.
Sollevò una cerata poggiata sul cassone. Sotto c’era un fucile. Era oliato, brillava ai primi raggi del sole, come un prato umido di rugiada.
“È quello di mio nonno. Proviamolo” e si diresse verso il bosco. Lo seguirono tutti.
Lo scenario era sublime, col sole nascente che illuminva le balze della montagna di fronte e bacivaa i campi, il fieno falciato e quello da falciare. Gli spruzzatori stavano innaffiando i prati. Piccoli arcobaleni apparivano e svanivano seguendo il loro ritmo.
Ad Hans Jörg parve d’essere immerso in un dipinto di Constable. Una sorta di pace gravida di tensione lo pervadeva, mentre ammirava lo spettacolo unico della sua terra.
Arrivarono a una radura abbastanza lontana da case e persone. Sistemarono qualche pezzo di legno su una pietra per usarlo come bersaglio.
Quando arrivò il suo turno, Hans Jörg era lucido.
Appoggiò il calcio alla spalla e brandì l’arma.
Svuotò i polmoni e rilassò i muscoli.
Lo sparo risuonò lungo le cavità del corpo.
Dentro di sé avvertì un’immensa calma, come quella che precede una tempesta.
Prima di passare il fucile, strofinò coi polpastrelli la zigrinatura del calcio.
La settimana successiva, Hans Jörg fissò un appuntamento negli uffici dell’azienda del padre di Francesca.
Detestava quel posto. Lì dentro, in quell’ufficio, lavoravano solo gli altri, quelli che non parlavano la sua lingua. I coloni. Gli invasori. E quelli dei suoi che ci lavorano, invece, erano traditori. Quelli che avevano colpito alle spalle e soggiogato la sua terra, la sua Heimat. Quelli che avevano torturato e ucciso i compatrioti, che avevano represso chi non si era voluto piegare e aveva combattuto per la libertà.
Avevano perso, purtroppo.
Traditi dalle trame politiche, dagli accordi, dagli inciuci. Li avevano venduti, sacrificati sull’altare della convenienza.
L’avevano chiamata Autonomia.
Una balla che i più avevano ingoiato, molti anche con gusto, con piacere.
Lottare per l’autodeterminazione richiedeva troppe ferite, troppo dolore; e allora meglio accontentarsi, no? Così pensava la maggior parte della gente.
Non lui. Lui era diventato massimalista.
O tutto o niente.
Perciò scelse come obiettivo quell’agenzia di comunicazione che conosceva fin troppo bene, perché quando lo aveva voluto con sé in azienda, suo padre gli aveva chiesto di occuparsi del marketing.
“Mettono sempre il più scemo a occuparsi del marketing”, aveva sentito dire a un ingegnere alla macchinetta del caffè.
"O quello, o alle risorse umane. Se sono figli del capo”, spiegava allo
stagista che gli era stato affidato “e non sanno fare nulla, li destinano a quelle mansioni. Lì, almeno, non possono fare danni. Funziona in questo modo. Il figlio del titolare non ha meriti. Ricopre il suo posto per diritto divino. Perché, devi sapere, che il titolare è il dio di ogni azienda. Decide lui. Tu puoi solo sperare che ci sia un fratello, un fratello sveglio. Altrimenti, quando il padre muore, l’azienda fa swoosh”, aveva detto l’ingegnere mimando con le dita quella che sembra una foglia soffiata via dal vento, “e scompare. Fidati. L’ho visto succedere altre volte”.
Swoosh.
Hans Jörg aveva rivissuto quel gesto un milione di volte nella sua testa.
Swoosh.
L’ingegnere parlava di lui, ovviamente. Ma non si era accorto che lui, nascosto dietro alla porta dell’area relax, lo stava ascoltando.
Forse, se se ne fosse accorto, se Hans Jörg fosse uscito all’improvviso dal suo nascondiglio salutando tutti con nonchalance, l’ingegnere avrebbe trasalito.
Forse lo avrebbe blandito, spaventato dalle possibili conseguenze. O forse avrebbe cambiato discorso, fatto finta di nulla.
Ma Hans Jörg non lo aveva fatto.
Non avrebbe neppure fatto la spia perché anche in azienda gli snitch non piacciono a nessuno. In un certo modo gli era grato. Grato per la sua sincerità, per avergli insegnato una lezione. Era grazie alle sue parole che aveva imparato che nessuno
rispetta il figlio del titolare.
È la legge delle aziende. Il figlio del titolare non ha meriti. Ricopre il suo posto per diritto divino, perché il titolare è il dio dell’azienda.
Ed era vero.
Che meriti aveva lui?
Lui che era fresco di scuola e del mestiere di imprenditore non sapeva nulla, se non che dovevi lavorare troppo, a casa non c’eri mai e finivi per colmare con soldi, regali e concessioni il senso di colpa che ti dava il vuoto che ti lasciavi dietro.
Nessuno.
Ma Hans Jörg era testardo, voleva sfuggire al giudizio.
Sfuggire al destino.
Così si era impegnato.
Aveva letto un paio post. Seguito qualche esperto. Visto dei video.
Poi si era trovato seduto lì. In quella stanza piccola, angusta, a fronteggiare due ragazzi che avranno avuto almeno vent’anni in più d’età e, di sicuro, dieci d’esperienza.
Nel biancore al neon che sommergeva la sala riunioni, i fori dei pannelli fonoassorbenti inchiodati alle pareti distorcevano la percezione.
Alla periferia del suo sguardo i confini della stanza sembravano liquefarsi.
Ebbe l’impressione che lo spazio si espandesse e contraesse come se si trovasse all’interno di un immenso muscolo cardiaco, che batteva al tempo della sua ansia.
Quando fece scivolare il foglio sul tavolo dovette trattenere a forza un conato.
“Bisogna velocizzare il sito”, disse ai due tecnici seduti di fronte a lui. Quello pelato chinò la testa in avanti, facendo scivolare in modo quasi impercettibile gli occhiali verso la punta del naso.
Lo guardava dall’alto delle lenti. Poi guardò il foglio e lo prese in mano.
Il volto del tecnico era impassibile, il tronco d’un albero secolare che scivola imperterrito attraverso la grana del tempo.
Hans Jörg intuì a cosa stava pensando l’uomo seduto di fronte a lui. Non stava pensando a come velocizzare il sito dell’azienda di suo padre, del titolare.
Stava pensando che mettono sempre il più scemo a occuparsi del marketing. Che il figlio del titolare è lì per diritto divino, perché il titolare è il dio dell’azienda.
Hans Jörg a questo non ci pensava, ma anche il tecnico ha un dio titolare che, magari, ha un figlio, che è stato messo a fare marketing. Solo che lì, Hans Jörg non era solo il figlio del titolare, era il cliente. “E il cliente”, così gli aveva insegnato suo padre, il titolare, “ha sempre ragione.”
“Il sito è lento”, incalzò Hans Jörg. “Dobbiamo velocizzare il sito” disse col tono di voce che un buon caratterista userebbe per interpretare uno di quei personaggi secondari che abbondano nei film catastrofici. Il militare obbediente ma un po’ scemo che aiuta lo scienziato nerd e brillante a sbrogliare la situazione.
Dobbiamo velocizzare il sito, per dio professore, si sbrighi o il mondo brucerà!
“Stando al resoconto di questo tool d’analisi gratuito che ci hai portato, Hans Jörg, possiamo darci del tu, vero?” chiese il tecnico.
Lui deglutì annuendo.
“Bene”, continuò “stando a questo resoconto, per velocizzare il sito dovremmo ridurre la dimensione delle immagini. Ma vedi, Hans Jörg, se noi riducessimo la dimensione delle immagini attraverso un’ulteriore compressione, beh perderemmo la qualità. Le immagini verrebbero tutte sgranate, capisci?”
Hans Jörg distolse lo sguardo per un istante. Davanti ai suoi occhi s’era aperto un vuoto immenso che lo lo stava risucchiando al suo interno.
“E dal momento che questo è un sito vetrina, la qualità delle immagini è di importanza vitale”, concluse il tecnico piantandogli addosso uno sguardo che non ammetteva repliche.
Hans Jörg comunque non aveva mezzi per replicare. Obiezione respinta. Si alzò e ringraziò. Riprese il suo foglio ed uscì dalla stanza.
L’umiliazione si completò dopo qualche ora, nell’ufficio di suo padre, il titolare, quando, dopo aver ascoltato le sue parole, le parole di suo figlio, del figlio del titolare, decise di alzare il telefono e chiamare in agenzia per intimare di smettere di prendere per il culo suo figlio, ché è un cliente, è un figlio cliente e lui ne è il padre, un padre cliente, e lui, come padre e come cliente, certi atteggiamenti non era disposto a tollerarli.
Qualche settimana dopo, Hans Jörg incontrò il tecnico. Sedeva, dandogli le spalle, al tavolino di un bar insieme alla compagna e al figlio. Il bambino avrà avuto sì e no diciotto mesi.
Hans Jörg era con un gruppo di amici. Tornavano da un giro con la moto da cross. Addosso aveva la tuta imbottita e le protezioni, che lo facevano sentire a suo agio, non come quando indossava la camicia fighetta che, il giorno della riunione, portava sopra la t-shirt Hard Rock Café Praha che ammiccava incongrua in trasparenza.
Perciò fece finta di nulla.
In quel momento il tecnico si alzò, sistemò il figlio sul passeggino e gli chiuse con grazia le cinghie. Sbloccò le ruote con la punta del piede, fece perno e girò su se stesso. Fu allora che lo vide.
Hans Jörg lesse sorpresa sulla sua faccia e nessun rancore. Il tecnico, anzi, gli sorrise e lo salutò con allegria. Hans Jörg rispose al saluto ma, nel petto, sentì il cuore sobbalzare.
"Ti odio", pensò, "italiano di merda".
Ti odio, italiano di merda, grida Hans Jörg mentre caccia una pallottola nella testa del tecnico, prima di essere colpito a sua volta.
La stanza ruota di scatto.
Il suo corpo soccombe all’azione combinata della gravità e dei proiettili.
Crolla a terra.
Denso e appiccicoso, il sangue prende a sgorgare copioso dalle ferite.
La morte lo abbraccia.
È felice di andarsene, perché sa che lo farà in gloria. Il suo, per tutti quelli come lui, sarà il gesto di un eroe. Sa che nei forum e nelle chat verrà celebrato, perché così si addice a chi sceglie di reagire. Lui ha alzato la testa, come Breivik. Ha smesso di sopportare, come Brenton Tarrant. Faranno dei meme per questo motivo e, grazie a essi, verrà consacrato nel Valhalla.
Vivrà in eterno, ma è a quel punto che la vede.
La morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita.
Francesca, è lì.
Sceglie i suoi momenti significativi.
Giace riversa sul pavimento e sanguina.
E li mette in successione.
Non si era accorto che ci fosse anche lei, che i suoi spari l’avessero raggiunta.
Facendo del nostro presente.
Lo sta guardando. Lo fissa coi suoi occhi profondi, languidi. Non c’è odio nello sguardo che Francesca gli regala in quel suo ultimo istante.
Infinito, instabile e incerto.
C’è solo una struggente, autentica e infinita empatia.
Un passato chiaro, stabile, certo.
☕️ Mi offriresti un caffè? ☕️
Amo molto sorseggiarne uno o due durante la giornata, meglio ancora se in compagnia. Se ti piace quello che scrivo puoi offrirmene un donando 1€. Per farlo non devi far altro che cliccare il pulsante e seguire le istruzioni.
Offrimi un caffè!