I social sono sempre meno social?

Abitare la rete significa chiederci cosa cerchiamo, individualmente o collettivamente, dagli strumenti che utilizziamo per farlo.

Finestra di browser con una scritta. The World’s First Collaborative Sentence di Douglas Davis.
Douglas Davis - The World’s First Collaborative Sentence

Anche se solo per poche ore, la scorsa settimana una flebile scintilla di vita ha attraversato questo e altri blog.

Lunedì mattina, infatti, ho pubblicato un post che, prendendo spunto dal recente esodo social da X a Bluesky, rifletteva sul senso e sul valore di intestardirsi a curare un blog in un periodo in cui i "blog non li legge più nessuno".

Il post ha avuto un'accoglienza piuttosto calda e spinto altri blogger a commentarlo. Il primo è stato Enrico che, giusto qualche giorno prima del mio post, aveva pubblicato su Crusing Collapse una densa e bella riflessione proprio sull'esodo social e le chimere della decentralizzazione.

Vale la pena riportare per intero le parole con cui ha condiviso su Facebook il link al mio post, perché servono a fissare un punto importante. Scrive infatti Enrico che:

l'argomento con cui Flavio mi ha convinto ad aprire Cruising Collapse su Ghost non è scommettere sulla next big thing dell'ecosistema di internet che permette di scalare migliaia di visualizzazioni, reazioni e commenti, ma avere uno spazio più personale e più personalizzabile che permette di avere un controllo maggiore sulla propria scrittura e sui suoi tempi. Il che permette in realtà di confrontarsi meglio e non peggio con chi legge, anche quando non commentano in pubblico. Qui lo spiega in due parole. E credo che il tema da affrontare sia che cosa cerchiamo individualmente e collettivamente dalle piattaforme, ovvero: a cosa servono e a cosa _ci_ servono. Che è un esercizio utile anche per leggere e interpretare dibattito pubblico, specialmente quando si parla del ruolo della comunicazione (e soprattutto: delle sue varie forme).
È assolutamente vero che, soprattutto negli ultimi anni, le scelte di gestione della presenza digitale di molti giornalisti e scrittori politicamente attivi e impegnati hanno finito per assecondare l'hype verso quelle piattaforme - da Substack a Instagram, dai podcast a Twitch, da X a YouTube - che più di altre promettevano il miraggio di poter monetizzare il proprio grafo di contatti.

Non è questo il momento e il luogo per una riflessione più approfondita sul modo in cui la monetizzazione dei contenuti digitali sia, in un piccolo mercato come quello italiano, estremamente difficile ma, piuttosto, quello per sottolineare come il lavoro necessario per provarci sia super intenso e consumante.

Sono proprio i tempi, quelli di cui parla Enrico, a rendere la produzione di contenuto difficilmente sostenibile a livello personale, fisico e mentale. Ma, soprattutto, per chi non ha una nicchia precisa da recintare, presidiare e sfruttare, le possibilità offerte da quel tipo di piattaforme risultano, a conti fatti, poco utili.

Di Substack aperti, usati una o due volte e lasciati poi morire più o meno lentamente ne ho visti più di uno. Di blog che, anche a distanza di tempo, pubblicano qualcosa ne ho invece visti diversi.

Ma non è tanto o, almeno, non è solo una questione di cadenza. È una questione di, rubo ancora le parole a Enrico, "cosa cerchiamo individualmente e collettivamente dalle piattaforme".

Il mio scopo, l'ho detto più di una volta, è quello di usare la mia presenza digitale per costruire relazione. Per trovare altre persone e farmi trovare  da loro, attraverso la condivisione di pensieri e idee condivise in modo disinteressato e per il puro piacere di contribuire all'intelligenza collettiva.

Ma da dove (ri)nasce questo bisogno?

Me lo sono chiesto leggendo il post che Strelnik ha pubblicato dopo aver letto il mio di lunedì scorso e nel quale riportava una frase di Simon Reynolds, un altro che si ostina a curare il proprio blog, il quale notava che a cambiare, nel blogging, era soprattutto la comunicazione tra un blog e l'altro.

Reynolds ha ragione: quando i blog erano nel loro prime dialogavano moltissimo tra loro.

La maggior parte dei contenuti era infatti costruita a partire da altri contenuti e i link tra un blog e l'altro non erano solo una forma di cortesia o uno strumento per dimostrare appartenenza a una bolla piuttosto che a un altra (erano anche quello, certo) ma un strumento per costruire il proprio grafo di relazioni.

Col passare del tempo questa funzione ha finito per essere assorbita dai social. Il problema è che, progressivamente, i social si sono trasformati da strumenti per costruire relazioni a strumenti per la pubblicazione di contenuto, finendo per perdere o limitare moltissimo questa funzione.

L'esempio più eclatante di questa dinamica lo ha offerto la metamorfosi di Twitter in X che, pur avendo mantenuto all'esterno il proprio aspetto, è diventato un social completamente diverso.

Un social in cui, pagando ogni mese una fee, si può accedere a un set di strumenti che permette di massimizzare la visibilità dei propri contenuti e monetizzare così la propria presenza.

Mi riferisco alla versione Premium della piattaforma che, risemantizzando la spunta blu da elemento che certificava l'attendibilità di un account a elemento che ne segnala l'eccezionalità, orienta il vettore dell'interazione in senso verticale, facendo di X uno spazio simile a Instagram, YouTube, Twitch o Tik Tok; piattaforme in cui si può essere presenti anche solo come pubblico passivo, fruitore di contenuti prodotti da una ristretta minoranza di utenti in possesso delle capacità e degli strumenti necessari. 

Sospetto sia questa, più che una forma di virtue signalling, la ragione profonda dei periodici esodi da X verso altre piattaforme.

E sospetto anche che a spingere alcune persone alla ricerca di strumenti in cui poter gestire la propria presenza digitale in modi diversi da quelli a cui spingono le interfacce delle piattaforme sia proprio questo desiderio di tornare ad abitare la rete come uno spazio in cui conoscere e connettersi ad altri.

Dopo tutto, a pensarci bene, non è neanche una questione di strumenti: è questione di scegliere come vogliamo abitare il virtuale e per quali motivi.

Gli strumenti che scegliamo per farlo sono solo la naturale conseguenza di una scelta. Una scelta la cui possibilità è nascosta in bella vista dietro la superficie liscia e riflettente di quelle piattaforme che abbiamo abitato così a lungo da finire per non vedere più le pareti del recinto a cui ci hanno condotto.

☕️ Mi offriresti un caffè? ☕️

Amo molto sorseggiarne uno o due durante la giornata, meglio ancora se in compagnia. Se ti piace quello che scrivo puoi offrirmene un donando 1€. Per farlo non devi far altro che cliccare il pulsante e seguire le istruzioni.

Offrimi un caffè!