Una Seattle in miniatura

A cavallo tra la fine degli anni '80 e l'inizio degli anni '90 del Novecento, la scena musicale bolzanina esplode coi suoni del punk, del metal, dell'hardcore e dell'industrial. Il documentario "Südtirock, suoni di confine" ricostruisce la storia di quegli anni.

Una coppia di rocker bolzanini al tavolo di un bar.
Fotogramma tratto da Südtirock, suoni di confine.

Provo sempre un sottile, subdolo senso di straniamento quando vengo messo di fronte alla storicizzazione di un tempo che ho vissuto, anche se solo per pochi istanti, per brevi frammenti.

È lo stesso che mi ha colto durante la visione di Südtirock, suoni di confine, il documentario che Armin Ferrari e Jadel Andreetto hanno dedicato alla scena musicale fiorita tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 del secolo scorso a Bolzano e in Sudtirolo.

Straniante non è tanto prendere coscienza del tempo che passa, accorgersi tutto d’un tratto che si è diventati vecchi, quanto, piuttosto, rendersi conto che su molte parti di quella storia grava come una sorta di nebbia che rende il ricordo viscido e indistinto, surreale.

Di sicuro è perché quella raccontata nel film non è la mia storia, ma quella delle sorelle e dei fratelli maggiori che io non ho avuto ma che le mie amiche e i miei amici di sicuro sì.

Ma è anche una storia di volti e nomi che conosco, che ho incontrato e con cui, in momenti diversi della mia esistenza, ho avuto a che fare per una ragione o per l’altra.

In un certo senso è anche una storia di pionieri, di fondatori. Una di quelle storie che si tramandano di bocca in bocca quando si appartiene a una scena artistica e che poi, quando il tempo smette di rendere ridicolo questo pensiero, qualcuno decide di eternare fissandola su un supporto, una pagina o la memoria digitale di una videocamera.

Il lavoro di Ferrari e Andreetto però non si esaurisce nel racconto delle band e dei loro suoni, azzarda un passo avanti oltre il copione consolidato del documentario rock o, meglio, un passo di lato, sghembo come le prospettive espressioniste con cui, mentre si racconta quella di ieri, viene filmata la città di oggi.

Una città che è ormai nipote di quella che fu in quegli anni ’80 così cruciali che, stirpe di donne e uomini tutta nuova, tennero a battesimo i primi figli dell’autonomia e videro brillare le ultime bombe di una lunga stagione di violenza che esalava i suoi ultimi, ma non per questo meno velenosi, rantoli.

Già, perché gli anni ’80 bolzanini e sudtirolesi furono quelli degli attentati di Ein Tirol e degli exploit elettorali del Movimento Sociale Italiano, ma anche quelli delle deindustralizzazione che trasformava la zona industriale voluta dal fascismo e, con essa, cambiava il volto ai quartieri che il fascismo le aveva messo a servizio.

Anni di fabbriche e cantieri che ebbero come colonna sonora il punk, il metal, l’hardcore e l’industrial.

Generi accomunati da un approccio viscerale e diretto alla musica. Generi che nascevano e si sviluppavano grazie all’etica do it yourself, quel farsi le cose da soli che ne rappresenta ancora oggi la lezione più dirompente. Generi forgiati e codificati a migliaia di chilometri dal piccolo, isolato, infernale idillio che è stata la mia terra ma che, con essa, avevano saputo sviluppare un rapporto così profondo da poterne costituire una chiave di lettura.

La domanda con cui si apre il film - “che cos’è il Sudtirolo?” - testimonia di questo legame e le reazioni che ne seguono, montate una dietro l’altra, mostrano quanto possa essere spiazzante accorgersene.

Eppure, mano a mano che il documentario si sviluppa, si chiarisce il modo in cui la natura viscerale e istintiva di questa musica abbia rappresentato, per chi diventava adulto in quegli anni, un modo per reagire al grigiore della realtà circostante, fondando contemporaneamente una realtà tutta nuova che spalancava le porte del territorio alle correnti di energia più vitali della cultura globale.

Quella musica non funzionò solo come grimaldello ma anche come elemento di unità in una terra che, ancora, era scossa dai fremiti del conflitto etnico. Il territorio al di sotto dei palchi divenne una zona franca, la terra di nessuno in cui, bastava volerlo, si poteva celebrare una tregua di Natale e riconoscersi finalmente come pari in quella particolare dimensione che solo le sottoculture sono capaci di creare.

In parte valvola di sfogo e contatore geiger delle tensioni e delle trasformazioni sociali della sua epoca, il südtirock fu capace tanto di leggere il suo tempo quanto di influenzarlo, preparando la strada per il tempo che sarebbe venuto immediatamente dopo. Il tempo nichilista e pacificato della globalizzazione che si comincia ad apparire in filigrana nelle ultime battute del documentario.

Un tempo di ironia e disimpegno, il mio tempo, la cui storia sarà però responsabilità di altri raccontare così come Armin Ferrari e Jadel Andreetto hanno raccontato quella degli anni un cui la mia città e la mia terra vibravano a tal punto da essersi guadagnate l’appellativo di “piccola Seattle”.

Credo basti questo a farvi un’idea...

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