Roald Dahl, la cancel culture e la vastità del cazzo che me ne frega

Un post che voleva alludere alla cancellazione di Roald Dahl e invece è un lungo rant su cancel culture, social e branding.

Roald Dahl, la cancel culture e la vastità del cazzo che me ne frega
leander Herzog, Unititled

La scorsa settimana avrei voluto pubblicare un post che alludesse a tutto il can can sollevato dalla vicenda dei libri di Roald Dahl. Se non sapete di cosa sto parlando, la versione breve è che l'editore inglese dei libri del celebre autore per ragazzi ha deciso di cambiare alcuni termini, perché non in linea con la sensibilità odierna. Se volte la versione lunga, sciroppatevi lo spiegone de Il Post.

Di Dahl e dei suoi libri, però, a me interessa ben poco. Il post allusivo che avrei voluto scrivere sarebbe stato, se lo avessi scritto, dedicato a chi riesce ad avere sempre un'opinione tempestiva su tutto. Io quel tipo di persona la invidio. Perché non ci riesco, io, ad avere un'opinione su tutto.

Dico sul serio, non è una boutade. A me piacerebbe molto avere un'opinione solida e ben scolpita su tutto. E, soprattutto, mi piacerebbe averla in tempo reale, così da poterla condividere sui social.

Scoppia una guerra? Beccatevi la mia opinione perfettamente levigata sui perché e i percome e i come andrà. Colgono la Juve con le mani nel sacco? Ecco come sono certo che cambierà il sistema calcio nazionale e internazionale. Eleggono Elly Schlein segretaria del PD? Vi servo calda calda la mia riflessione su cosa può signifiare questa scelta per la sinistra da Brescello a Pechino.

E invece non ci riesco. O, almeno, non ci riesco quasi mai. Sarà perché ho i vari read-it-later sempre intasati di roba (oh, a proposito, da un mesetto sto usando Read di Readwise che è una bomba, provatelo, tanto non mi danno un soldo) salvata eoni fa che provo a recuperare; sarà perché ho una pila di libri da leggere, video e film da guardare, dischi da ascoltare che non si esaurisce mai; sarà che devo pure piegarmi all'ingiustizia di lavorare per mangiare.

Sarà come sarà, più tempo passo sui social, più sento di restare indietro. Fermo. Al palo. Mentre tutti gli altri mi accelerano a fianco, dritti come fusi ad estrarre quanto più plusvalore simbolico riescono dall'ultimo trend su cui sembrano sapere già tutto in anticipo, derivando la loro conoscenza da una qualche misteriosa capacità divinatoria, che li fa sempre sembrare in anticipo su ogni cosa, perennemente sul pezzo, pronti a presidiare la loro nuova colonia.

E io invece arranco. Salvo articoli su articoli. Mi iscrivo a due, tre nuove newsletter a settimana. Metto in lista di acquisto libri su libri. Bookmarko qualche video, podcast o .pdf che restano lì a farmi salire l'ansia fino a che non inizia un nuovo hype e il ciclo ricomincia.

Così, a volte, mi domando se forse non sono io a essere sbagliato. Forse non sono all'altezza. Forse sono scarso. Forse ho letto i libri sbagliati. Buttato il mio tempo a fare cose sbagliate. Perché io proprio non ci riesco ad avere un'opinione pronta all'uso su tutto. Per farmi un'opinione e avere il coraggio di esprimerla, io devo prima non dico leggere tutto quello che c'è da leggere ma, almeno, leggere un po'. E anche allora non è che io mi senta proprio a mio agio a dire la mia. Magari ci faccio prima un thread su Twitter, così, per vedere se la cosa funziona. E se funziona vado avanti. Leggo ancora qualcosa. Mi appunto due note nello Zettelkasten, butto giù un post, lo faccio leggere a qualcuno (di solito è il mio amico Enrico, che è super intelligente) e, magari, pitcho un pezzo sul tema a una rivista.

Insomma, per dire la mia su un fenomeno ho bisogno di tempo. Tempo che i social non ti danno e, così, finisce che mi ci sento sempre meno a mio agio, sempre più ansioso e livoroso. E mi ritiro. Scrivo meno, rosico di più. Sparisco. E più sparisco più temo che perderò il mio posizionamento, la mia visibilità, i miei contatti e allora mi dico che dovrei scrivere di più, che dovrei seguire quel topic, perché, oh, anche io ho qualcosa da dire, un'opinione da esprimere. Insomma, capite bene, è un casino.

Ma poi...

Ma poi, ogni tanto, arriva la realtà e rimette le cose in prospettiva. Nella fattispecie arriva la realtà e ti dice che l'editore inglese di Dahl ha deciso - forse prima o forse dopo essersi beccato la tempesta di merda, boh, chi lo sa, non ha importanza - di fare, oltre alla riduzione per genitori contemporanei, anche un'edizione integrale, con dentro tutti i termini scorreti che all'Autore piacevano così tanto, perché era nato quando cazzo era nato lui.

E allora penso, vedi, ho fatto bene a non esprimere qualsiasi opinione. Andava a finire che facevo la figura del tonno come tanti che, oggi, sono lì a fare distinguo, a pattinare sulle uova per giustificarsi le cazzate che hanno detto. E io gongolo. Gongolo, perché dentro di me, nel profondo, è da un po' che rimugino su questa cosa a cui ci spingono i social, ovvero a reagire.

A reagire subito. Adesso. Ora. Immediatamente.

Reagire a tutto quello che succede nel mondo, perché se non lo fai sparisci.

Puff. Via. Finito. Andersen.

I social funzionano così. Sono la resa della ragione all'emozione, come ha ben detto, tra gli altri, Vincenzo Susca in Tecnomagia. La logica algoritmica che ormai permea la nostra cultura tutta quanta è proprio questa roba qui.

Succede qualcosa, reagisco. Subito. Senza pensarci. Senza far passare neanche un secondo, perché tutto deve svolgersi in tempo reale ed essere messo a valore per il posizionamento del brand che, volenti o nolenti, incarniamo nel dominio dell'economia simbolica.

Perché i social servono a questo, a costruire e fare circolare brand nella mente connessa. Magari non sono serviti a questo da subito, magari chi li ha costruiti lo ha fatto pensando ad altro ma, statene certi, nel corso del tempo sono stati ottimizzati per fare esattamenete questo e per farlo nel modo più efficace e spietato possibile. Vi piaccia o no, per me, è così.

Che poi è la stessa cosa che sta succedendo con le intelligenze artificiali creative di cui si parla tanto. Le provi le prime volte e ti sembrano una figata. Poi, più passa il tempo e più subentra la noia e sapete perché? Perché chi le sviluppa le sta sviluppando per farne degli strumenti di lavoro, che poi è il solo modo per farle fruttare e far rientrare gli investitori del loro investimento e se non ci si riesce. Zac. Rubinetti chiusi e tutti a casa ad aggiornare il CV con una posizione in un'azienda di cui il mercato si è dimenticato prima ancora di aver fatto in tempo a premere il pulsante "salva" su LinkedIn.

E se ci pensi bene, questo meccanismo di resa della ragione all'emozione, questa spinta a reagire nel tempo reale è lo stesso meccanismo alla base di quella cosa che si chiama cancel culture e che a me non sembra molto di più che la cornice concettuale con cui la destra (americana, ma non solo) ha armato contro i suoi avversari le forme di agentività introdotte dal digitale con la sua logica algoritmica.

Pensateci bene, una quindicina di anni fa ci hanno detto che il digitale trasferiva potere dai gatekeeper alle persone qualunque, disintermediando una serie di funzioni per dare capacità di influenza a chiunque.

Il cameriere mi ha trattato male? Una pallina su Tripadvisor! Sulle lenzuola c'era un capello? Un 1 su 5 su Booking! La corazzata Potëmkin è una cagata pazzesca? Una stellina su solcazzoiodovesivalutanoifilm! Il governo è corrotto? Organizziamo a una manifestazione usando Facebook e facciamolo cadere.

La retorica è stata questa, ed è stata pervasiva. Davvero pensate che, oggi, potendolo fare, le persone non si dovrebbero organizzare per "cancellare" chi non gli va a genio? Ovvero usare gli strumenti digitali a loro disposizione per esprimere la loro opinione e raggiungere una massa critica per avere l'impressione di poter indirizzare la realtà? Suvvia, siamo onesti. Chi di noi non si è tolto lo sfizio di stroncare qualcosa o qualcuno?

Il meccanismo alla base della tanto vituperata cancel culture è lo stesso, né più né meno, che nutre l'ansia di posizionamento. Devo dire la mia, devo dirla adesso, prima che sia troppo tardi. La cosa grave è che, per metterlo in parole, è necessario usare un frame reazionario, trasformando in realtà quello che è a tutti gli effetti un fantasma.

Lo scrivevo tempo fa e oggi ne sono ancora più convinto: abbiamo bisogno di attrito anche nella vita digitale. E sarebbe bellissimo se i tycoon delle piattaforme decidessero di farsi pagare le funzioni base dei loro social, invece che degli upgrade inutili. Magari le persone penserebbero che non ne vale la pena e che quei soldi sarebbe meglio investirli in un dominio e un hosting per avere un blog dove dire e fare quello che più aggrada loro, senza che nessuno gli scassi il cazzo.

Non succederà, perché le piattaforme fanno ancora un sacco di soldi rivendendo i nostri dati aggregati agli inserzionisti. Però sognare è bello e allora io sogno, mentre un altro trend inizia il suo ciclo di hype e io contemplo, finalmente sollevato, la vastità del cazzo che me ne frega.