Note su Lingua Madre di Maddalena Fingerle
Note sparse e disordinate sul romanzo "Lingua Madre" di Maddalena Fingerle.
Confesso di aver dovuto aspettare del tempo per riuscire a trovare la giusta disposizione d'animo per scrivere di Lingua Madre, il romanzo d'esordio di Maddalena Fingerle, vincitrice del Premio Calvino dello scorso anno.
La mia esitazione nasce nell'avvertire una sorta di pressione a esprimermi su questo libro. Sono stati diversi gli amici a sollecitarmi un parere in merito e in privato ho avuto il piacere di dialogare con loro di questo libro.
Un libro che, lo dico apertamente, non è proprio "la mia tazza di te". Ovvero non è il tipo di letteratura che seguo, che suscita il mio interesse intellettuale o su cui ho strumenti per esprimermi in un modo compiuto.
È per questo motivo - e seguendo diversi inviti ricevuti a esprimermi in una forma pubblica in merito - che ho scelto di pubblicare le mie riflessioni in forma di note e su questo mio spazio privato.
Posta questa premessa devo confessare che condivido poco la riflessione sul linguaggio che è centrale nel romanzo di Fingerle.
Con il Derrida de La voce e il fenomeno, penso che nel momento in cui le esprimiamo in forma di phoné le parole smettano di appartenerci. Per questo faccio molta fatica a sposare la dicotomia tra parole pulite e sporche che informa tutta la visione del protagonista del libro.
Per me le parole sono sempre e costitutivamente sporche. Il linguaggio e la comunicazione a cui esso è funzionale sono vettori di entropia.
Per questo condivido la critica che Gabriele Di Luca muove al romanzo nella sua recensione, quando nota che lo sguardo di Fingerle
avrebbe potuto forse essere reso più acuto e incisivo mediante una maggiore profondità riflessiva sul tema del linguaggio in generale, sulla sua capacità contraddittoria – e quindi produttiva – di rivelare e nascondere un mondo della vita fatto di molteplici sfumature, non solo avvitandosi e annegando nella contrapposizione neurotica, in bianco e nero, tra “parole sporche” e “parole pulite”;
e allo stesso tempo sono dubbioso quando Claudia Boscolo nel suo pezzo su Ibridamenti nota che
Nel delirio psicotico di Paolo Prescher, invece, il lascito drammatico dell’italianizzazione forzata dell’Alto Adige da parte del regime consiste in una lingua orrenda, inutilizzabile, ipocrita, senza radici, violenta.
Non tanto perché l'intuizione sia fuori fuoco, quanto perché in questo passaggio non (mi) è chiaro dove e contro chi si esercita la violenza dell'italianizzazione a cui Boscolo fa riferimento. Perché la lingua tanto odiata dal protagonista del romanzo è quel vernacolo italiano che nasce dall'incontro tra le diverse varietà dell'italiano che si sono mescolate a Bolzano come effetto del colonialismo interno operato dal Regime.
Il rischioi è che si finisca a leggere la violenza di quella lingua come sradicamento, aprendo l'ennesimo contenzioso su chi è vittima di chi nella Storia locale che è una delle forme ormai esaurite di espressione del conflitto etnico.
A questo punto però interrompo il frattale, perché è un discorso che porterebbe troppo lontano dal romanzo di cui, invece, ho apprezzato alcuni degli aspetti simbolici. Uno su tutti il ruolo di antagonista assegnato alla madre del protagonista.
Trovo significativo che ci sia questo conflitto al centro di una narrazione ambientata in un territorio dove la principale istituzione, la Provincia, è detta "mamma" in un'accezione che è più iperprotettiva che affettuosa.
Sono infatti convinto da tempo della necessità di storie che possano offrire un angolo di visuale sull'Alto Adige differente dalle narrazioni dominanti - quelle pubblicitarie e autopromozionali - che definiscono l'immaginario di questa terra.
Lingua Madre va in questa direzione e la cosa mi rende felice.
Ancora più felice mi rende il fatto che lo sta facendo con alle spalle il lavoro di due riviste come Fillide e Manaròt, che lavorano per valorizzare la scena letteraria locale con uno sguardo aperto verso il dibattito nazionale. Un pregio che ben si accorda a un altra mia ossessione: quella di rompere con l'eccezionalismo altoatesino e provare a legare i destini della cultura locale a correnti ed energie che ne scavalchino i confini.
Con Lingua Madre si apre così una fessura che può fare solo del bene alla capacità della letteratura atesina di proporre una nuova e altra narrazione del territorio. È una bella sfida da raccogliere.