Il virus come dispositivo di visualizzazione
In che modo il virus abilita la produzione di immagini? Una riflessione su Covid-19 come dispositivo di visualizzazione.
Per aprire la sua analisi dedicata a Covid-19 come oggetto culturale e politico, Pietro Saitta usa queste parole:
ciò che affascina delle emergenze – intese come quegli eventi inattesi e indesiderati che fanno irruzione nella vita di una società e ne interrompono il regolare flusso – è la loro capacità di mettere a nudo i tratti più autentici della normalità.
Gli fa eco su CheFare Ivan Carozzi dichiarando che:
il virus è la verità. Il virus dice la verità. Il virus strucca e palesa il mondo. Il virus ha rivelato l’importanza vitale di un servizio sanitario pubblico efficiente, pronto, attrezzato, organizzato. Eppure lo avevamo dimenticato. I politici avevano dimenticato. Ci sta mostrando il sudore, la forza, la virtù e la generosità senza paragoni di medici e infermieri: non eravamo più abituati.
Con toni più sfumati il primo e più solenni il secondo, entrambi gli scrittori si concentrano sulla qualità rivelatoria del virus. Una dichiarazione d'intenti piuttosto massimalista, la cui tenuta andrebbe testata di fronte all'attuale orizzonte di atomizzazione, individualizzazione e moltiplicazione dei punti di vista sul mondo, resa possibile dall'insieme di tecnologie che rendono facile e accessibile a chiunque costruire, con poco sforzo, infinite architetture di senso dotate delle più diverse marche semiotiche di veridizione. Ovvero la configurazione del giudizio che ci siamo abituati a chiamare post verità o, in modo più corretto, post fattualità.
Ma una disamina sullo statuto della verità e i problemi a esso connessi sono il punto su cui mi interessa soffermarmi. Ci basti dire, mediando, che il virus genera effetti di verità. Nel cono di luce che esso proietta, scompare l'apparenza che ricopre le strutture della società. La natura dei rapporti che le compongono viene così esposta davanti agli occhi di tutti.
Dunque il virus è un dispositivo di visualizzazione che, mentre ci consente di vedere, abilita la creazione delle immagini con cui i nostri dispositivi ermeneutici ci permettono di vederlo. Trasformatasi in immagine, la supposta verità a cui il virus ci metterebbe di fronte si allontana e mentre lo fa richiama nel dibattito tutta la questione del rapporto tra visione e veridizione. Un rapporto tutt'altro che stabile.
Perché se è vero che nelle tecnologie di visualizzazione, specialmente in quelle a base fotografica (ma non solo, basti pensare alle visualizzazioni di dati così in voga in questo periodo storico), c'è sempre una componente che attesta qualcosa di reale è altrettanto vero che queste tecnologie presuppongo sempre un lavoro di configurazione. La costruzione del punto di vista si effettua nel gesto che seleziona cosa viene mostrato e cosa nascosto all'interno di un'inquadratura.
Perciò il punto diventa chiedersi cosa stiamo vedendo, come possiamo riconoscerlo e attribuirgli un senso ma, soprattutto, come possiamo riconoscere quello che l'immagine nasconde.
Domenica 8 marzo, poco dopo l'annuncio che diverse aree del nord Italia sarebbero diventate zona rossa, sui social prende a circolare un video che s'insinua anche nel mio feed.
Raffigura una stazione non meglio identificata - scoprirò solo in seguito, dai giornali, che si tratta della stazione Porta Garibaldi di Milano - lungo i cui corridoi s'affrettano numerosi viaggiatori con valige al seguito. In sottofondo una voce, forse quella della persona che sta effettuando la ripresa, intima, rivolta alla folla, senza alcun successo, "Fermi! Fermi! Qui succede un putiferio". Questa voce è l'unico elemento che connota d'eccezionalità una scena che, altrimenti, sarebbe fin troppo comune.
Il video documenta un breve istante della fuga di centinaia di persone che, alla notizia dell'estensione delle zone rosse di contenimento all'intera Lombardia e a 11 province limitrofe, trapelata sui giornali prima ancora che il governo ne annunciasse l'entrata in vigore, hanno scelto di abbandonarle zone oggetto del provvedimento.
La totalità delle didascalie che accompagnavano il video, definendone il tono della ricezione, era di aperta condanna e chiaro giudizio su un comportamento che tutto appare, tranne che rispettoso della propria e dell'altrui sicurezza.
Dedotta dalla sua ricezione e diffusione sui social, la verità che il virus ha visualizzato in queste immagini è quella di un paese indisciplinato e incurante, dove l'interesse privato prevale sul bene pubblico.
Ma un'immagine è tutto fuorché trasparente; nasconde tante cose quante ne mostra.
Nasconde, ad esempio, l'armamentario coloniale che, vista la direttrice della fuga (dal nord al meridione), la postura giudicante non ci ha messo molto a riattivare producendo, in un ideale concantenamento di montaggio, il meme che potete vedere qui sotto.
Le immagini della stazione Garibaldi fanno tutto questo operando attraverso la costruzione del punto di vista.
Chi riprende è al di fuori del flusso, in alto rispetto alla scena, a una distanza di sicurezza rimarcata dalla linea delle balaustre e delle scale mobili. È il punto di vista di chi è già in quarantena, di chi ha già obbedito all'ordine di restare a casa e può permettersi di farlo. Immagini costruite allo stesso modo diventeranno parte della grammatica visiva della quarantena. In quegli otto secondi di video è cristallizzata la costruzione dello sguardo del popolo dei balconi.
Uno sguardo che, per la sua configurazione, rientra appieno in quelle visualizzazioni dell'assedio che definiscono uno degli orizzonti visivi di maggior diffusione di questa contemporaneità. Orizzonte in cui generano un rovesciamento degno di nota. Qui il nemico è in rotta, fugge e si allontana dalle mura. È dunque un momento di vittoria quello a cui stiamo assistendo? Se sì, di quale vittoria si tratta?
In un post pubblicato il 14 marzo dal blog Studi sulla quesitone criminale, Anna Simone riflette sul virus come soggetto imprevisto e sui rovesciamenti che Covid-19 ha imposto alla sceneggiatura delle nostre esistenze.
C'è un passaggio che risulta utile a ridefinire la cornice delle immagini attorno a cui sto ragionando in questo scritto.
A un certo punto si genera anche una sorta di razzismo al contrario, quel “Napoli colera” con cui gli ultras delle squadre di calcio hanno stigmatizzato intere popolazioni del sud dopo l’epidemia del ’74 fa eco tra i miei ricordi di bambina. Non v’era estate o vacanza al Nord, almeno sino agli anni ’90, in cui appena ci si relazionava ad una persona lombarda o veneta o piemontese e magari si cenava insieme, dinanzi ad una nostra eventuale richiesta di crudi di mare, gli altri storcevano la bocca e ci dicevano: “Ma come? Non vi è bastato il colera?”. Nella nostra amata criminologia critica tale postura si chiama labelling approach, teoria dell’etichettamento. Senza cedere alla vendetta, che comunque viene istintiva ed è persino comprensibile se financo durante l’emergenza rifiuti a Napoli, solo qualche anno fa, accreditati quotidiani come “Libero” o “Il Giornale” scomodavano le tesi di Niceforo e Lombroso per ribadire che “i napoletani” non sanno smaltire la loro immondizia, vivono in tanti e ammassati in pochi metri quadri nei quartieri spagnoli senza avere alcuna idea di cosa sia la civiltà, ciò che qui voglio sottolineare è che di fatto, il soggetto imprevisto Covid-19 ha completamente rovesciato l’ordine discorsivo di matrice razzista tra nord e sud, est e ovest.
Al flusso d'immagini se ne aggiungono altre. L'estetica è quella dei documentari verità, dei servizi de Le Iene, delle piazzate di Brumotti o del Gabibbo.
Camera a mano che ondeggia, immagini sgranate.
Un cellulare avanza tra i veicoli parcheggiati sulla lingua di cemento della banchina di un porto.
Sguardi attoniti al suo passaggio.
Verso la fine l'obiettivo s'avvicina all'ingresso di uno dei pullman. Sbircia all'interno prima di essere allontanato. Anche questa volta è una voce fuori campo a determinare il tono e il contesto di ciò che vediamo.
Su YouTube il video è datato 26 febbraio 2020. Una decina di giorni prima che la quarantena entrasse in vigore. Raffigura un'abitante dell'isola di Ischia accoglie un gruppo di turisti provenienti dal veneto, regione in cui sono stati registrati alcuni dei primi casi di contagio da Coronavirus, con un rosario di insulti razzisti rovesciati.
È la rappresentazione visiva della riflessione di Simone.
Da cosa stanno fuggendo le persone riprese nel video di domenica 8 marzo? Mi rispondo che fuggono tanto dall'attivazione delle zone rosse quanto dalla vendetta di chi, seppur per un breve istante, si è visto rovesciare addosso il razzismo a lungo perpetrato al danno dell'altro.
Nel tempo dell'incertezza, mentre ci conduce alla stagnazione, il virus produce rovesciamenti e controrovesciamenti. Dunque possiamo davvero dire che il virus è la verità? Dice davvero la verità?
Ho l'impressione che le cose siano più sfumate, meno nette di quanto ci appaiono in questa sorta di animazione sospesa in cui ci siamo trovati a vivere, senza un'adeguata preparazione.
Il virus, da solo, non produrrà alcun cambiamento nel nostro orizzonte d'esistenza. Il virus si limita illuminare contraddizioni che già esistono, a produrre immagini di esse. Sta a noi, operando tagli e concatenamenti sul flusso di queste immagini, provare a indirizzare la direzione verso cui, come un treno che perde all'improvviso la sua forza motrice e inizia a rallentare inesorabilmente fino alla stasi, è indirizzato il collasso di tutti i dispositivi che regolano le nostre esistenze.
Mentre tutto intorno a noi si contrae in un grumo di tempo densissimo attraversato da infinite rette, ogni concatenamento sembra possibile.
Dalle sarabande survaivaliste che si squagliano rapidamente al sole della quarantena, al terrore sterminista evocato dalle scelte del governo Johnson e altrettanto rapidamente rientrato nell'alveo di uno stile globale di gestione dell'emergenza, fino alle utopie di un ritorno della necessità del socialismo o al sogno di un caleidoscopio di microsovranità così granulare da raggiungere la dimensione cellulare.
Lo spettro di possibilità è amplissimo e se solo fino a ieri era difficilissimo, se non impossibile, immaginare un futuro capace di uscire dai recinti dell'assiomatica capitalista. Oggi, davanti ai nostri occhi, il virus proietta scenari e genera fantasie a ciclo continuo.
Non durerà a lungo.
Come insegna Marco Dinoi, prima o poi emergerà un'immagine capace di chiudere definitivamente il ventaglio delle possibilità. Tuttavia, lo spazio per determinare quale sarà il concatenamento che opererà la definizione dell'evento che stiamo vivendo è ancora aperto.
È aperto nella solidarietà incondizionata ai detenuti che, nelle carceri, si sono ribellati a chi, nel tempo dell'emergenza, ha operato per rendere ancor più inumana e gravosa la pena.
È aperto nello sciopero selvaggio dei lavoratori che rifiutano di mettere a rischio la propria salute per contribuire a mantenere in funzione lo stesso sistema che ha abilitato la diffusione del virus, indebolendo le strutture di una società che ha preteso di cancellare, stringendola nella morsa dell'individualismo e del mercato.
La situazione ci impone un'autodisciplina che deriva, oggi più che mai, dalla presa di coscienza collettiva che nasce nell'empatia, nella capacità di farsi carico del dolore, della solitudine e della paura vissuta dall'altro. Il lavoro di cura che la quarantena impone è la base da cui iniziare a destituire l'emergenza e politicizzare il virus.
Sono le via di fuga più sicure che possiamo percorrere.