"Tecnologie radicali di Adam Greenfield" su Il Tascabile
Su Il Tascabile ho recensito Tecnologie Radicali, un saggio di Adam Greenfield che racconta il modo in cui le tecnologie digitali stanno riscrivendo il nostro rapporto con la realtà.
"Tecnologie Radicali" è un saggio di Adam Greenfield, uscito in autunno per Einaudi. Iniziandone la lettura mi sono domandato perché le più avanzate tecnologie che abbiamo a disposizione oggi vengano definite "radicali" dall'autore di questo libro?
La risposta è semplice, la radicalità delle tecnologie sta nel modo in cui queste riscrivono il nostro rapporto con la realtà che ci circonda, progettando la vita che viviamo ogni giorno.
Le tecnologie radicali, quindi, sono quelle che abilitano la produzione inconsapevole di dati da parte degli utenti, un processo, la datificazione della vita quotidiana, funzionale all’ottimizzazione e alla razionalizzazione delle nostre esistenze. La dimensione narrativa entro cui esse si muovono è infatti quella che dipinge una società in cui tutte le decisioni sono prese da sistemi tecnologici capaci di selezionare le opzioni migliori, tra le molte possibili. Sistemi che basano le loro scelte sull’analisi di una quantità sterminata di dati prodotti, come abbiamo visto, tanto volontariamente quanto inconsapevolmente da noi utenti connessi a dispositivi digitali. A emergere da questa connessione, è una società che non ha più bisogno dei tradizionali soggetti deputati all’attività decisionale, in quanto questa è stata demandata a dispositivi tecnologici capaci di farlo al posto loro.
Addendo: Tecnologie Radicali e utopia
A lettura ultimata, e questo valga come addendo alla recensione, mi rendo conto che il lavoro di Greenfield è utile anche per offrire una prospettiva inedita da cui guardare ai tanti discorsi sulla necessità di un recupero dell'utopia come orizzonte di costruzione di un futuro alternativo a quello a cui sembra siamo destinati.
Un futuro che è strettamente legato al discorso e alla narrazione della tecnologia ben descritto e criticato da Greenfield nel suo saggio. Di fronte a questo discorso è opportuno chiederci che cos’è, di preciso, la tecnologia? Il dizionario ci informa che la radice della parola tecnologia è composta dalle parole greche tecno- e -logia la cui traduzione letterale sarebbe “trattato sistematico”. Più liberamente possiamo dire che la tecnologia è il discorso sulla tecnica e, da un punto di vista antropologico, rappresenta:
l’insieme delle attività materiali sviluppate dalle varie culture per valorizzare l’ambiente ai fini dell’insediamento e del sostentamento; in questo senso generale la tecnologia (o, con termine ormai meno usato, ergologia) costituisce una branca fondamentale della cultura, e talvolta la si identifica con la cosiddetta cultura materiale, ma in realtà il suo significato è assai più esteso poiché la ricerca connessa alla tecnologia incide tanto sulla conoscenza teorica della realtà e della natura costitutiva dei materiali quanto sul loro uso e sulle loro proprietà con influenze dirette sull’organizzazione sociale e politica.
Possiamo a questo punto provare ad ampliare la nostra definizione di tecnologia e inquadrarla come quella forza che ha la capacità di plasmare il nostro rapporto con il mondo. È infatti attraverso gli artefatti tecnologici che noi esseri umani siamo in grado di entrare in relazione con la realtà che ci circonda. Questo significa che le tecnologie che utilizziamo ogni giorno danno forma e struttura alla realtà e la fanno, di fatto, esistere per noi in modi definiti e peculiari.
Ecco che, alla luce di questa definizione, appare meglio quale sia la posta in gioco nel meccanismo che Greenfield prova efficacemente a descrivere in Tecnologie radicali.
Laddove la tecnologia è in grado di influire sul nostro modo di concepire la realtà e di entrare in relazione con il mondo, liberare il discorso su di essa da quelle incrostazioni ideologiche che, lo abbiamo visto, sono funzionali a trasmettere l’utopia del Potere diventa un momento fondativo della nostra posizione di esseri umani, situati nel mondo e legati in relazioni che assumono l’aspetto della società in cui viviamo.
Tutto questo, Greenfiled lo fa con una lucidità di sguardo e una chiarezza di scrittura che hanno la forza della rivelazione e aiutano a comprendere l’importanza di fondare un dibattito sul cambiamento in cui viviamo partendo da premesse meno legate a degli interesse di classe, abilmente distribuiti in una forma narrativa accattivante e, apparentemente, priva di problemi.
Se c’è qualcosa che accomuna i movimenti radicali e rivoluzionari più importanti della storia è la loro capacità di immaginare il futuro, di creare visioni ambiziose di quello che sarà e che potrebbe essere. Uno sforzo a cui si accompagna sempre un tentativo di lettura e riscrittura delle più avanzate tecnologie a disposizione in un dato momento storico. Perché non si può dare immagine del futuro che non ne preveda un uso liberatorio.
Nei tempi in cui ci siamo trovati a vivere, sembra che questa capacità si sia pian piano esaurita o estremamente raffreddata. E allora non appare casuale che Nick Srnicek e Alex Williams abbiano voluto intitolare Inventing the future un saggio che riflette su come rinnovare le forme della partecipazione politica, aggiornandola ai cambiamenti tecnologici che stiamo vivendo come singoli e come società.
Da sempre più parti si avverte forte infatti un desiderio di ritornare a concepire l’utopia tanto come orizzonte di costruzione del futuro, quanto come argine alle distopie che sempre più spesso sembrano percolare dai prodotti dell’immaginario, appiccicandosi alla realtà che viviamo ogni giorno.
Tuttavia, il pensiero utopico, ce lo ricorda Fredric Jameson nelle pagine de L’inconscio politico, non è da solo garanzia di radicalità né di una volontà progressista di trasformazione dell’esistente. Piuttosto, ci dice il critico americano,
ogni coscienza di classe, di qualsiasi tipo, è utopistica nella misura in cui esprime l’unità di una collettività [...]. La collettività raggiunta o un gruppo organico di qualsiasi genere – degli oppressori come degli oppressi – è utopistica non in sé stessa, bensì solo nella misura in cui tali collettività sono figure della vita collettiva concreta ultima di una raggiunta società utopistica o senza classi.
Ecco perciò che il lavoro di Greenfiled ha il pregio di equilibrare gli entusiasmi più acritici, ricordandoci che il pensiero utopico non è mai trasformativo di per sé, ma deve essere sempre accompagnato da un progetto politico in cui riconoscersi.