Dall'amniotica cameretta alle complessità dell'universo: recensione ad Aurora
Aurora, il terzo disco di Niccolò Contessa, in arte I Cani, rappresenta un passaggio solo in apparenza incoerente nel percorso del cantautore romano. L'ho recensito cercando di spiegare perché.
Quindi basta cercare, la notte, su Google il mio nome/Io non voglio più guardare, dentro di me/non c'è niente di niente, miliardi di mondi esistono ancora/ miliardi di vite, per fallire ancora.
Quello che avete appena letto è ritornello di Calabi-Yau, una delle canzoni contenute in Aurora, il nuovo disco de I Cani, uscito poco meno di un mese fa.
Al cantautore romano bastano queste poche righe, emblematiche, per raccontare quell'egocentrata postura dell'io che sembra essere la più diffusa malattia sociale nell'epoca della comunicazione digitale.
Il nostro ripiegarsi su noi stessi, il farci monadi di una struttura reticolare in cui valiamo solo in funzione del numero esponenziale di informazioni che riusciamo a processare, viene messo a confronto con un concetto di fisica teorica: quella varietà di Calabi-Yau che dà nome al pezzo.
Detta anche spazio di Calabi-Yau, si tratta di una varietà differenziabile a variabili complesse, con uno spinore armonico non nullo.
Il concetto entra a far parte della teoria delle stringhe, la quale "sostiene che le extradimensioni sono arrotolate in figure a forma di spazi di Calabi-Yau associate ad ogni punto dello spazio tempo".
O così almeno sostiene Wikipedia e io, non avendo strumenti atti a contraddirla, prendo la voce per buona. Anche perché qui non mi interessa tanto approfondire concetti di fisica teorica che mi sono comunque di difficile accesso.
Il percorso artistico de I Cani è partito dallo spazio più ombelicale e amniotico che esista, per arrivare a toccare le complessità dell'universo
Preferisco piuttosto sottolineare come Niccolò Contessa suggerisca che il balsamo in grado di lenire la malattia che ci affligge sia la presa di coscienza della complessità e della vastità delle possibili dimensioni che potremmo trovarci a vivere.
Ascoltata così, Calabi-Yau non è soltanto un'indicazione terapeutica, ma segna anche una distanza siderale dal primo disco, che si apriva con un pezzo intitolato Themes From The Cameretta.
Come a dire che il percorso artistico de I Cani è partito dallo spazio più ombelicale e amniotico che esista, la nostra cameretta appunto, per arrivare a toccare le complessità più inspiegabili della porzione di universo che abitiamo.
Cosa si è perso in questo viaggio?
Di certo in Aurora mancano l'aggressività, l'irruenza e l'ansia post punk che caratterizzavano alcuni dei vecchi pezzi.
Al loro posto ci sono un'inedito amore per il canto e un intreccio sonoro più aperto e disteso, adeguatissimo al confronto coi massimi sistemi universali, che sembra essere un po' il file conduttore del disco (Protobodhisattva, Aurora, Ultimo mondo, Finirà, Sparire).
Quello che resta, invece, è la qualità squisitamente narrativa dei testi di queste 11 canzoni.
Contessa si dimostra ancora una volta un narratore capace di ritrarre un carattere (Baby Soldato) fino a dargli concretezza o di far emergere i nostri tic linguistici nella loro ridicola apparenza (Questo nostro grande amore).
Al netto di circa un centinaio di ascolti, così almeno mi comunica il mio profilo di Last.Fm che però non tiene conto delle volte che ho fatto girare il vinile sul giradischi, Aurora suona come un disco meno immediato e diretto dei precedenti, inserendosi però in modo coerente nel percorso di un cantautore che si è ritagliato uno spazio importante nei miei ascolti.
E di questo non posso essergli che grato.