Facebook Inside Out
Facebook Reactions è una funzionalità per esprimere emozioni tramite emoji, che Facebook ha iniziato a testare nell'Ottobre del 2015. Come funziona e quali rischi comporta per noi utenti?
Questo post è apparso la prima volta su Medium.
Quando scrissi Su Facebook dedicai alcuni paragrafi all’analisi del meccanismo di stimolo e risposta che il social network metteva a disposizione dei propri utenti.
Mi ero accorto che esisteva un preciso circuito senso motorio nel quale la percezione di un’informazione veniva collegata ad un set di azioni possibili: like, commento, condivisione.
Il like, il gesto di apprezzare qualcosa, era, tra quelle disponibili, l’unica azione collegata all’espressione di un’emozione. Un’emozione che possiamo definire come genericamente positiva.
Per esprimere tutto il resto del registro emotivo umano non restava che lo spazio offerto dal commentario. Certe eruzioni di violenza verbale a cui si assisteva e si continua ad assistere sui social mi sembravano direttamente collegate a questa situazione.
Se lo schema di azione che queste piattaforme permettono è basato su meccanismi di stimolo e risposta — un circuito senso motorio di percezione e reazione che riposa sull’illusione di immediatezza creata dall’aggiornamento continuo delle informazioni organizzate in una forma di fruizione gerarchica e cronologica, lo stream — allora l’espressione dei nostri stati emotivi diventa una sorta di “scarico psichico d’energia”, che la piattaforma assorbe in modi diversi.
Attraverso un gesto automatizzato nel caso dell’apprezzamento. Attraverso l’espressione verbale, spesso im-mediata, nel caso di emozioni che non rientrano nella sfera della positività.
Per questo mi divertivo a immaginare un futuro distopico, in cui l’introduzione di un pulsante “dislike” su Facebook metteva fine all’esondazione di violenza linguistica a cui l’umanità aveva assistito fino a quel momento.
Offrire agli utenti la possibilità di esprimere un maggior numero di sfumature emotive attraverso un meccanismo di risposta immediata è proprio quello a cui mira Reactions, la nuova funzionalità che Facebook ha iniziato a testare oggi, a partire da Spagna e Irlanda.
Reactions non è altro che un’estensione del pulsante “like” che permette di esprimere un set di emozioni più variegato, attraverso l’uso di sette differenti emoji. Oltre all’apprezzamento, in questo modo potremo esprimere amore, ilarità, contentezza, stupore, tristezza e rabbia.
Le emoji non sono altro che un’estensione del nostro linguaggio in grado di sfruttare la natura sincretica della comunicazione digitale. Attraverso una rappresentazione visiva simbolica e schematica permettono di comunicare concetti complessi come i nostri stati emotivi.
Questo senza dover ricorrere a perifrasi e offrendo all’utente vaste possibilità combinatorie (alzi la mano chi tra voi non ha mai mandato messaggi in codice combinando tra loro una serie di emoji).
Inside Out l’ultimo, celebratissimo film d’animazione Pixar non fa altro che questo. Ovvero creare una rappresentazione visiva del funzionamento del nostro cervello e delle nostre emozioni. Laddove non accade che il regista cada nella tentazione delle spiegone, e l’invenzione visiva sovrasta la sceneggiatura e i dialoghi si hanno i momenti migliori del film.
Ad esempio nella rappresentazione dei cosiddetti costrutti piscologici, che nel film vengono chiamati “isole” e rappresentati come grandi e complessi automi fatti di metallo, bulloni e ingranaggi. Un modo raffinato per restituirne la natura combinatoria, ingegneristica e “artificiale” senza per questo doversi perdere in verbose spiegazioni, come accade nella scena del pensiero astratto dove ogni trasformazione è accompagnata dalla sua puntuale didascalia (“ehi tu! Si dico a te che guardi il film, hai visto che siamo bidimensionali?!”).
Questo apparato visivo è funzionale alla lezione del film. Ovvero la presa di coscienza che, a un certo punto dello sviluppo, le nostre strutture emotive perdono la loro valenza univoca per diventare più complesse e ibridate.
Una complessità a cui Reactions non può e non sa nemmeno rispondere. La gamma emotiva proposta nella nuova funzionalità di Facebook è infatti limitata a sette possibili scelte.
Poche per esprimere tutte le gradazioni e le sfumature emotive che caratterizzano la nostra esperienza. Molte se si pensa alle possibilità che la nuova funzionalità introduce per Facebook a livello di business.
Le piattaforme social campano sull’acquisizione e la vendita dei nostri dati personali, a un livello di dettaglio che diventa sempre più preciso.
L’aggiunta di sei ulteriori sfumature emotive al taso “like” consentirà a Facebook di conoscere sempre meglio i propri utenti e di trasferire questa conoscenza ai suoi clienti. Ovvero alle aziende che utilizzano si servizi di advertising offerti dal social network.
Pur essendo una pratica diffusa e consolidata, dopo il datagate è diventato chiaro a molti che la raccolta indiscriminata dei nostri dati sul web è lesiva del diritto alla privacy.
La recente sentenza della Corte Ue che ha invalidato il principio del safe harbor segna un cambio di passo importante sul tema. Da oggi infatti i tech giants americani saranno costretti ad adeguarsi alle normative nazionali in tema di privacy, stabilite dai singoli Stati membri dell’Unione.
Il fatto che la sentenza sia arrivata grazie all’attivismo di un cittadino austriaco, Max Schrems, mostra anche come la questione sia ormai una preoccupazione diffusa presso l’opinione pubblica. Se non in tutta, almeno in una parte di essa disposta a spendere tempo, energie e risorse per intervenire sulle politiche dei propri paesi.
Probabilmente perciò questo non è neppure il rischio più elevato che corriamo. Perché l’attenzione alla privacy diventa, col passare del tempo, sempre più elevata e dunque al centro degli interessi dei policy maker mondiali.
La tecnologia digitale sta agendo sulle nostre strutture cognitive e queste si stanno adattando a essa. Ma questi cambiamenti sono meno evidenti, perché accadono senza alcuna frizione in ambienti che ormai siamo abituati ad abitare quotidianamente.
Perciò il modo in cui le funzionalità delle piattaforme che usiamo per scambiare informazioni e tessere i nostri rapporti sociali plasmano la nostra identità è un argomento assai meno dibattuto, e su cui manca ancora una consapevolezza diffusa.
Riconoscere che tutte le piattaforme digitali non sono spazi neutri, ma ambienti progettati per farci vivere un’esperienza elaborata in base a un pensiero e a una visione del tutto ideologiche, è il punto di partenza per cominciare a definire la nostra identità all’interno dello spazio pubblico contemporaneo.