#ticostaca - Italiani in Costa Rica
Osho, nella sua infinita saggezza, espone chiaramente l'idea che ogni italiano ha della Costa Rica. Ma al di sotto delle smargiassate, gli italiani che in Costa Rica hanno aperto un chiosco sulla spiaggia (o quasi) esistono davvero. Ne abbiamo incontrati tre, queste sono le loro storie.
Osho, nella sua infinita saggezza, espone chiaramente l'idea che ogni italiano ha della Costa Rica. Ma al di sotto delle smargiassate, gli italiani che in Costa Rica hanno aperto un chiosco sulla spiaggia (o quasi) esistono davvero. Ne abbiamo incontrati tre, queste sono le loro storie.
I nomi dei protagonisti sono stati cambiati per rispettare la loro privacy
Gli occhi di Antonio non stanno fermi un secondo, mentre l'impetuoso scorrere del suo discorso sembra non doversi arginare mai. In quella soda lungo la strada ci siamo solo da pochi minuti. Nemmeno il tempo di riordinare le idee dopo aver trovato riparo dall'acquazzone che ci ha colti all'improvviso e siamo già storditi dall'alluvione di parole che questo nostro connazionale - incontrato per fatalità mentre pedaliamo lungo questa lingua d'asfalto circondata dalla giungla - ci riversa addosso.
Antonio è uno dei tanti italiani che ha dato seguito al saggio consiglio di Osho: accannare tutto per aprire un chiosco sulla spiaggia in Costa Rica. Ok, sia chiaro, in Costa Rica tutte le spiagge sono demanio pubblico e quindi i chioschi sulla spiaggia di fatto non esistono. Però non siamo qui a fare i pignoli, ci interessa di più il concetto che non la realtà dei fatti. E il concetto è abbastanza semplice, la Costa Rica rappresenta il sogno proibito di molti italiani: lasciarsi alle spalle le pene dalla vita quotidiana nine-to-five per abbandonarsi alla Pura Vida in un paradiso tropicale.
Antonio qui c'è arrivato quasi sette anni fa e, ci racconta, tra pochi mesi tornerà in Italia per stare vicino alla famiglia. Per altrettanti anni, prima di arrivare in Costa Rica, è stato proprietario di un bar in una delle più famose città d'arte italiane. Un locale che, a suo dire, lavorava da colazione fino a notte tarda. Un locale che gli è costato caro, perché a un certo punto ha dovuto scegliere tra la sua salute e gli affari. Antonio ha fatto la scelta giusta e dopo aver passato sei mesi in giro per l'Europa a bordo della sua Porsche, che da anni vorrebbe vendere ma non gli riesce perché "c'è la crisi e chi se la prende una macchina così?", ha deciso di trasferirsi in Costa Rica.
Qui ha lavorato come direttore di sala in un ristorante per diversi anni. Ma oggi il ristorante ha chiuso e perciò, mentre aspetta di tornarsene nel Bel Paese, dà una mano alla proprietaria di questo piccolo locale. Una donna corpulenta, per nulla impressionata dal fatto che siamo italiani come il suo tuttofare. A dire il vero non lo è neppure il carnicero (macellaio) che arriva qualche decina di minuti dopo che ci siamo seduti al tavolo, ad aspettare che spiova.
Antonio è il secondo italiano che abbiamo incontrato in Costa Rica e, a dispetto della fama di paradiso tropicale che questo luogo si porta dietro, la Costa Rica non sembra aver lenito affatto le pene di Antonio. Il suo sguardo sfuggente, l'eloquio mitragliante, il suo gesticolare incessante sembrano i segni di un esaurimento mai davvero curato. Parlando con lui, ascoltandolo raccontare la sua storia, mi tornano in mente le parole di Seneca, quando ricorda che viaggiare non serve a lenire i nostri problemi, perché essi viaggiano con noi. Non mi sono mai sembrate tanto vere come in questo momento.
Invece Francesco, il primo connazionale in cui ci siamo imbattuti, lo abbiamo conosciuto qualche giorno prima. Anche lui ha una storia simile a quella di Antonio. Per anni ha avuto un'attività in Italia poi, quando la vita s'è fatta troppo stressante, ha deciso di trasferirsi, lasciandosi alle spalle una famiglia e, immaginiamo, un divorzio. Ora vive ai margini della giungla, si è risposato con una donna costaricense dalla quale ha avuto un figlio che ci presenta, chiamandolo affettuosamente "il tarzanetto", facendoci colare una goccia di sudore gelata lungo la schiena. Ma abbiamo passato troppo poco tempo insieme per poterlo giudicare in qualsiasi modo.
Il suo bar/piscina/ristorante/negozio di souvenir ci appare davanti agli occhi come un miraggio, in una torrida giornata di sole, dopo una passeggiata di quasi 8 km. Francesco se ne sta spaparanzato dietro al bancone, il ventilatore puntato in faccia, uno sguardo distratto alla tv, accesa su MTV. Anche lui ha voglia di chiacchierare, specialmente quando i due buttadentro ci presentano in quanto italiani. Non ha nulla dell'inquietudine di Antonio, anzi ne è il riflesso speculare. Calmo, rilassato, Francesco non perde occasione per sottolineare quanto sia felice "di essergli andato in culo all'Italia". Non ha alcuna intenzione di tornare, Francesco. Lui qui ha trovato davvero il paradiso e sta bene così.
Eppure questo paradiso si sta facendo più piccolo, angusto. Almeno così sostiene Alfredo, il terzo e ultimo italiano che incontriamo al di là dell'oceano. A sentir lui anche in Costa Rica sembrano cominciare ad averne abbastanza degli immigrati, specialmente di tutti questi spagnoli e italiani che arrivano nel paese centroamericano sull'onda della crisi che ha colpito i loro paesi.
Insomma un po' di stranieri vanno bene, soprattutto quelli che aprono i locali, creano lavoro e portano ricchezza. Ma quando cominciano ad arrivare ragazzi di vent'anni, squattrinati, che nel loro paese non hanno opportunità, beh quello è un problema.
"Non ci sono più gli stessi spazi, le stesse occasioni di quando sono arrivato io" spiega Alfredo. Anche lui, come Antonio e Francesco, è venuto qui per sfuggire dallo stress di una vita redditizia e irregimentata. In Costa Rica ha potuto realizzare il suo sogno: aprire un locale in cui si balla il reggae. E per quasi dieci anni la cosa è andata avanti, ma poi il troppo lavoro e i guadagni sempre più magri lo hanno costretto a cambiare lavoro.
Oggi fa il tour operator. Ed è proprio dietro il bancone del chiosco in cui vende tour e attività turistiche che lo incontriamo. Ne fiuto l'accento da lontano, "questo è italiano" dico sottovoce a Morena e sulle prime sfodero il mio miglior inglese. Ho una repulsione genetica per gli italiani all'estero, derivata, forse, dalle memorie insepolte di vergognose gite liceali; o da quella volta a Budapest quando - era una giornata calda, caldissima, fin troppo torrida per essere la fine di aprile in Ungheria - incrociammo un gruppo dei italiani che affollavano la spianata del palazzo reale e uno di loro, il più grosso, non appena fu a portata d'orecchio, vergò con sentenziosa sicumera queste parole: "Ahò, a mme sto sole me stupra".
Ma alla fine, con Alfredo, lascio cadere la maschera. "Ma sei italiano" gli chiedo, vedendo lo stupore affiorare nei suoi occhi. "Si, certo. Complimenti per l'inglese" mi risponde di rimando. Penso che in effetti faceva troppo strano comunicare con un italiano in una lingua straniera. In fondo, a pensarci bene, anche noi non siamo altro che due italiani in Costa Rica.