Contro la coerenza
Ho deciso di essere contro la coerenza, perché questo concetto diventa spesso un manganello retorico. Sono contro la coerenza perché odio le petizioni di purezza e riconosco il mondo nelle sue contraddizioni.
Mio padre è nato nel 1946. Fortunatamente per lui non ha fatto in tempo a sentire le ultime cannonate della Seconda Guerra Mondiale, ciononostante è cresciuto coi lasciti di quel conflitto. Che a Bolzano significava crescere tra le macerie dei bombardamenti, oppure rischiare di morire giocando con le munizioni della contraerea tedesca.
A otto anni, mio padre rimase orfano. Mio nonno, che non ho mai conosciuto, morì di fabbrica, stroncato da una malattia che non gli venne diagnosticata da un medico famoso per la sua connivenza coi padroni dello stabilimento Lancia di Bolzano. Quella malattia venne inclusa tra le malattie professionali solo dopo qualche tempo, non abbastanza per far sì che la famiglia di mio padre potesse ottenere un risarcimento o una pensione.
Orfano di padre, nell'Italia segnata dalla guerra, mio padre iniziò a lavorare a 14 anni, apprendista sarto nella bottega di due immigrati calabresi. Era il 1960, l'alba del miracolo italiano. Come tanti altri giovani bolzanini, negli anni in cui i ragazzi formano la propria identità, mio padre avrebbe potuto diventare genericamente di destra, come suo fratello, se non addirittura fascista, come molti altri suoi coetanei. Nulla di più normale, in una città in cui il MSI ha preso, per oltre 50 anni, le più alte percentuali di voto nazionali in proporzione al numero di abitanti.
Bolzano è una città in cui l'essere italiani e l'essere fascisti sono spesso la stessa cosa. Eppure mio padre, anche se oggi è vittima incosapevole del virus gentista, a quei tempi non divenne né di destra e neppure fascista, ma anarchico. Leggeva Bakunin e amava Proudhon; senza che nessuno glelo avesse insegnato, mio padre aveva capito che non avrebbe mai potuto sedersi dalla parte dei potenti.
Un giorno di qualche anno fa, parlando con lui, probabilmente della vita e dei massimi sistemi come solo un padre e un figlio possono fare, mi disse che era orgoglioso di essere riuscito a "fare i soldi, anarchicamente". Dove "fare i soldi" significava non aver mai fatto mancare nulla di ciò che è essenziale a mia sorella e a me, e di averci concesso, di quando in quando, anche una certa dose di superfluo. Mentre "anarchicamente" significava averlo fatto rimanendo sempre onesto, al di fuori di logiche di arrivismo e sopraffazione. In una parola, senza mai abusare nell'esercizio del suo piccolo, foucaultiano Potere.
Conservare la vecchia casa di famiglia, quella in cui oggi posso convivere con la mia compagna senza doverci preoccupare di pagare un affitto, è una delle cose che mio padre è riuscito a fare anarchicamente. In questa palazzina di due piani, alla periferia di Bolzano, distante solo pochi metri dalla fabbrica che uccise mio nonno, ci sono anche tre fondi. Due dei quali sono ancora di proprietà di mio padre, mentre il terzo appartiene a mio zio.
In uno dei due fondi di nostra proprietà c'è un salone di parrucchiere. Gerardo, detto Gerry, è un casertano che vive e lavora qui da diversi anni. Antipaticamente berlusconiano, seppure bravissima persona, Gerry ha un rapporto particolare con mio padre. Pur sapendo che da nessun'altra parte potrebbe trovare un affitto più conveniente non perde occasione per punzecchiare mio padre sul suo personale anarchismo. Gli rinfaccia di essere ricco e lo provoca dicendo che, in quanto anarchico non dovrebbe fargli pagare l'affitto. "Non sei coerente" dice spesso Gerry "non siete forse voi anarchici a dire che quello che è tuo è mio e viceversa?".
La risposta di mio padre è, invariabilmente, un bonario vaffanculo: "dell'anarchia, Gerry, non capisci un cazzo!"
Ho ripensato ai siparietti tra mio padre e Gerry giusto qualche settimana fa, quando uno dei miei contatti su Facebook ha condiviso, con intento perculatorio, un vecchio post, L'inguaribile sinistra degli idioti: No Coca e No Tav, firmato da Enrico Sola aka @suzukimaruti.
Per chi non lo conoscesse, @suzukimaruti è un blogger, di mestiere copywriter, fondamentalista Si Tav, famoso per aver aizzato la canea digitale con una clamorosa bufala su Bobbio oltraggiato dai No Tav, che venne smontata a stretto giro di posta, facendogli perdere qualsiasi credibilità gli fosse rimasta.
Nel post citato sopra, il bersaglio di @suzukimaruti sono, oltre gli immancabili No Tav, quelli che lui chiama i No Coca. Ovvero un gruppo di consiglieri comunali torinesi rei di aver fatto approvare in Comune un ordine del giorno per discutere del boicottaggio dei prodotti marchiati Coca Cola, in seguito alle notizie di ripetuti abusi verso i campesinos da parte del ramo colombiano dell'azienda. Stiamo parlando del 2005.
Come Gerry con mio padre, anche @suzukimaruti tira in ballo la coerenza come architrave del suo ragionamento. E lo fa citando niente meno che Lenin, perché @suzukimaruti, è bene ricordarlo per chi non conoscesse il personaggio, ci tiene a ribadire che lui è sempre stato, è e sarà sempre di sinistra. Anche quando dice e fa cose di destra, un po' come quelli che non sono razzisti, perché è colpa dei negri se puzzano.
(P.S. qui uso le parole sinistra e destra per indicare categorie cognitive ampie. Qualsiasi riferimento a formazioni politiche italiane, sedicenti di sinistra, è frutto della vostra mente. Perciò vi consiglio di consultare uno bravo davvero. E si, sto parlando del PD se non ci siete arrivati)
Cazzo, ma nessuno ha letto Lenin tra questi?
Azioni di questo genere richiedono coerenza. Se inizi un boicottaggio hai il dovere morale di essere coerente e boicottare TUTTE le aziende che maltrattano i lavoratori (lungi da me il difendere gli infamoni della Coca-Cola in Colombia: l’unico colombiano che tratterei male di default è Montoya).
Perché la Coca-Cola sì e la Nike no? E la Reebok no? E le compagnie petrolifere? E le case farmaceutiche?
@suzukimaruti avrà anche letto Lenin, ma il suo argomento è pretestuoso. Un boicottaggio è, e cito dalla definizione del vocabolario Treccani, "un'azione, più o meno concordata, tendente a isolare da un consorzio o da un mercato individui, enti o prodotti, sia a fine di lotta, sia per rappresaglia". Ovvero una forma di lotta localizzata e indirizzata con precisione verso un singolo obiettivo, condotta con tenacia e duratura nel tempo. Ora, a dieci anni di distanza, non è mia intenzione discutere quanto fosse credibile, come boicottaggio, quello del Comune di Torino verso i prodotti marchiati Coca Cola, bensì ragionare su un certo modo di utilizzare il concetto di coerenza.
Immagino che negli anni '50 ci sarà stato un qualche @suzukumaruti americano che, di fronte al boicottaggio dei bus a Montgomery avrà ricordato al Movimento per i Diritti Civili e al reverendo King che lui era un liberal fatto e finito, ma che se davvero volevano fare un boicottaggio avrebbero dovuto avere il dovere morale di boicottare TUTTI i mezzi di trasporto segregazionisti, nessuno escluso. Lo stesso, una decina di anni dopo, avrebbe citato Lenin per ricordare ai pacifisti che boicottare solo Dow Chemical, per protestare contro l'utilizzo del Napalm in Vietnam, era incoerente se non si fossero boicottate anche Lockhead e Martin Marietta. E via scendendo l'intero apparato produttivo americano e mondiale.
Così intesa, la coerenza non è altro che un manganello retorico, un espediente da squadrismo linguistico buono per sedare sul nascere ogni forma di ragionamento che miri a scardinare il dominio dell'esistente.
Non so se qualcuno, un filosofo o uno storico delle idee, abbia mai scritto una storia culturale della coerenza, di cui di certo ci sarebbe bisogno. Ma questo modo di ragionare a me pare una forma perversa di francescanesimo, per cui chiunque voglia criticare lo stato di cose è tenuto, da un non meglio precisato dovere morale, a spingere sempre la sua critica alle estreme conseguenze.
Così come San Francesco abbandonò ogni suo avere per seguire la parola del Signore, allo stesso modo chi vuole boicottare un qualsiasi soggetto a causa dei suoi comportamenti deve, per coerenza, boicottare qualsiasi altro soggetto che si comporti in maniera non conforme alle proprie idee.
Il che è, evidentemente, impossibile, perché siamo immersi fino al midollo nell'esistente e negarlo in nome del proprio idealismo significa negare l'esistente stesso. Per chi eleva la coerenza a unico valore, metro e fondamento dell'azione politica, come fa @suzukimaruti, non può esistere alcun discorso e, tantomeno, alcuna azione che possa portare fuori dalle logiche e dalle ideologie dominanti. Perché qualsiasi discorso e qualsiasi azione che cadano fuori da questo dominio sono e saranno sempre incompleti e incoerenti.
Qualche mese fa, alla fine della presentazione di un mio libro in un centro sociale di Benevento, sono stato avvicinato da un ragazzo che si era presentato come "membro del collettivo anarchico". Voleva sapere se, da compagno, io fossi favorevole o no alla contaminazione dello skateboarding da parte del big business e di multinazionali come Nike o Adidas.
Ho cercato di spiegargli che lo skate, pur esprimendo un immaginario ribelle, era da sempre una sottocultura legata a logiche di business. E che il business è stato ed è una componente fondamentale per lo sviluppo della disciplina. Senza investimenti non ci sarebbe mai stata ricerca sui materiali e quindi evoluzione tecnica. Senza il coinvolgimento delle aziende non esisterebbe un circuito professionistico e un ragazzo non potrebbe pensare di fare dello skate la sua carriera.
Tutto questo ha, naturalmente, delle conseguenze. Alcuni tratti culturali caratteristici dello skateboarding rischiano di venire erosi. Laddove ci sono business e un circuito professionistico tende a venir meno l'idea che lo skate sia una disciplina individuale dove la competizione ha un peso relativo. Oppure si può assistere a una spettacolarizzazione crescente del gesto tecnico a discapito di stili meno "televisionabili". Rischi concreti a cui lo cultura dello skate risponde, di volta in volta, con tattiche e strategie precise.
Una petizione di purezza assoluta, nello skate come nell'azione politica e nella vita di ogni giorno, è impossibile. Ma questa impossibilità non dimostra, in alcun modo, che il pensiero radicale e trasformativo sulle cose sia una forma di incoerenza.
Coerenza significa, nella sua accezione etica, l'aderenza dei comportamenti di una persona alle proprie idee. Chi punta il dito sulla mancanza di coerenza del pensiero radicale agisce come se le idee non fossero abbarbicate come un rampicante alla nostra realtà concreta e tangibile e, di conseguenza, modellate su di essa. Al contrario, agisce come se le idee esistessero pure e separate dal mondo, disponibili per ogni evenienza in un serbatoio da cui basterebbe travasarle per attuarle.
Ma questo non ci è concesso, perché viviamo immersi in una sola realtà, e con le sue contraddizioni dobbiamo confrontarci. So benissimo quanto le compagnie petrolifere perseguano lo sfruttamento e politiche dannose per l'ambiente. Ma non posso rinunciare all'automobile, perché questa mi è essenziale per poter svolgere il mio lavoro. E lavorare mi è richiesto per poter adempiere ai doveri - e godere dei diritti - che mi vengono richiesti dall'organizzazione sociale in cui mi sono trovato a vivere.
Quello che posso fare, per rimanere fedele e coerente con le mie idee, è riconoscere le contraddizioni che mi trovo ad abitare e prendermene carico. Per esempio facendo scelte di consumo critico. Ragionando sulla natura dei miei bisogni e sui miei desideri. Cercando di soddisfarli riducendo l'incidenza dello sfruttamento.
Posso essere No Tav e, contemporaneamente, viaggiare su un treno ad alta velocità senza per questo venir meno alle mie convinzioni? Se l'attuale sistema di mobilità non mi offre alcuna alternativa praticabile e in accordo con esigenze che sono in parte mie e in parte imposte, credo che la risposta sia si. Questa circostanza, che mi rende incoerente agli occhi di chi non sa far altro che ridurre il mondo alla scelta tra accettazione incondizionata e rifiuto impossibile, mi permette invece di approfondire la conoscenza della contraddizione che sono costretto a vivere.
Perché non ci è data la possibilità di scegliere il mondo in cui viviamo e le regole che lo governano. Quello che possiamo fare è provare a cambiarle, consapevoli del fatto che con il mondo che ci è stato dato in sorte dobbiamo scendere a compromessi.
È per queste poche, e semplici ragioni che sono contro la coerenza.