The kafkian aspect: recensione a The Interpreters
The Interpreters è un progetto del giornalista inglese Ben Anderson che racconta le vicende degli interpreti afgani che hanno servito al seguito dell'esercito americano durante gli anni della missione ISAF.
Kafkiano, con quest'aggettivo indichiamo di solito una situazione che ci ricorda le storie raccontate nei romanzi e nei racconti dello scrittore praghese Franz Kafka. Un mondo narrativo "inquieto, angoscioso, desolante, o paradossale, allucinante, assurdo", è così che il dizionario Treccani descrive le atmosfere che lo scrittore creò in romanzi come Il processo e Il Castello.
Storie i cui protagonisti diventano vittime inconsapevoli di un meccanismo burocratico tanto impalcabile quanto insensibile, che ne stritola le vite in un crescendo di situazioni prive d'uscita, dove ogni ruota dell'ingranaggio pare muoversi indipendentemente e, a volte, in contrasto con le altre con cui invece dovrebbe girare all'unisono.
Kafkiano è anche l'aggettivo più adatto per descrivere The Interpreters. Un documentario e un libro che servono al giornalista e corrisondente di guerra Ben Anderson per raccontare le storie degli interpreti al servizio degli Stati Uniti durante la lunga e ingloriosa occupazione dell'Afghanistan.
La cornice di questa storia, almeno per sommi capi, la conosciamo tutti. Nel riflesso pavloviano che seguì gli attentati dell'11 Settembre gli Stati Uniti dell'allora commander in chief George W. Bush dichiararono guerra all'Afghanistan allora come oggi controllato da un insieme eterogeneo di militanti islamici radicali, i Talebani, milizie al soldo dei signori della guerra e politici corrotti. Lo scopo dichiarato era quello di catturare Osama Bin Laden, suggestivamente rinominato "lo sceicco del terrore", e smantellare la sua organizzazione terroristica, la tristemente famosa Al Qaeda.
Come sono andate a finire le cose è storia recente. Bin Laden è stato ucciso in un compound a poche centinaia di metri da un'accademia militare pakistana e l'operazione Enduring Freedom si è risolta nell'occupazione del paese asiatico da parte delle truppe ISAF; occupazione che dovrebbe terminare alla fine di quest'anno.
Tredici anni di conflitto non sono bastati per liberare il paese dalla minaccia dei Talebani che oggi rappresentano ancora una forza dominante nella politica afgana. L'esercito e la polizia che i paesi occidentali hanno contribuito ad addestrare sono corrotti fino al midollo e costituiscono l'ennesima fazione in lotta per il potere. Il governo è anch'esso corrotto ed esposto a pressioni e interessi personalistici.
Molti però sono stati gli afgani che, in questi tredici anni, hanno scelto di lavorare fianco a fianco delle truppe americane come interpreti sul campo. Essenziali nel permettere ai militari stranieri di allacciare rapporti con la popolazione locale si sono trovati spesso coinvolti in azioni di guerra, sono stati feriti, hanno ucciso dei loro connazionali e salvato la vita dei propri compagni.
Oggi, a causa del loro lavoro, sono esoposti alla violenza dei Talebani, delle forze di sicurezza corrotte, a volte dei loro stessi parenti. Disprezzati, additati come spie, accusati di tradimento sono costretti a nascondersi e temere per la propria vita in un paese che giorno dopo giorno precipita ancora una volta, se mai ne è davvero uscito, nel caos.
Come se non bastasse gli interpreti afagni si trovano a dover combattere contro un nemico altrettanto mortale, ma più subdolo di quello che possono incontrare ogni giorno uscendo dalle loro case: la burocrazia americana.
Per incentivare il reclutamento del personale locale, che avveniva e avviene su base volontaria, il governo americano mise a punto un programma speciale (SIV Special Immigrant Visas) per concedere visti per gli Stati Uniti ai collaboratori che potessero dimostrare di aver prestato lealmente servizio e di trovarsi in un concreto pericolo di vita.
Nonostante il pericolo per gli ex interpreti sia evidente in un paese ancora instabile, in cui i vecchi nemici non hanno mai realmente smesso di essere tali, la macchina burocartica si muove con tempi mortalmente lunghi. S'inceppa, s'insabbia e si fa sempre più autoreferenziale. Un muro di gomma su cui rimbalzano le vite di uomini che s'incagliano nei meccanismi della Storia e finiscono per esserne schiacciati.
Sono queste le storie raccolte e raccontate da Andreson. Storie di uomini che si confrontano con un meccansimo anonimo fatto di carte, procedure e richieste che si vedono negate con una semplice e-mail. Parole che, da sole, suscitano terrore: negato, rifutato, non candidabile. Ma sono anche storie di amicizia, quella che lega uomini diversi tra loro quando insieme affrontano la morte su un campo di battaglia.
Molti sono, infatti, i veterani della guerra che oggi s'impegnano a favore dei loro commilitoni afgani, perorandone la causa di fronte ai media e alle istituzioni. Soffrendo anch'essi perché sanno di aver dato in buona fede una parola che non possono mantenere se non a costi molto alti.
In questo libro e in questo film non troverete la letteratura, nemmeno la poesia. Troverete la cruda realtà dei fatti testimoniati da Andreson. E se vi resta in cuore un briciolo di umanità tremerete e vi sentirete anche voi impotenti come i protagonisti di queste storie. Qui non c'è happy ending come nelle narrazioni allo zucchero filato di Hollywood, qui c'è l'urgenza di una tragedia annunciata, che si sta già compiendo, e la riflessione doverosa sulle bugie, le falsità e le speranze che ogni guerra infrange. Un altro piccolo, sciocco, inutile monito che vale la pena di ascoltare in questi tempi di guerra.