Social media e sollevazioni popolari: uno sguardo d’insieme

Che ruolo hanno avuto durante le Primavere Arabe i cambiamenti portati dai social media? A partire da una critica a Malcolm Gladwell ragiono sul posto che i media sociali occupano nella nostra società.

Social media e sollevazioni popolari: uno sguardo d’insieme

Nel raccontare le sollevazioni che hanno infiammato e tutt'ora infiammano la sponda meridionale del Mediterraneo, i media hanno evidenziato l'importanza che il web 2.0 ed i social networks hanno avuto nel favorire la diffusione delle informazioni ed il ruolo cruciale della rete nel coordinare ed organizzare le azioni di protesta. Alcuni commentatori si sono spinti a parlare di Twitter Revolution o di Facebook Revolution. Non è la prima volta che i social media si guadagnano l'attenzione dei media tradizionali in occasione di proteste o sollevazioni popolari. Era già accaduto nel 2009 per le proteste contro il Partito Comunista in Moldova e contro i presunti brogli in Iran. In tutti questi casi si era già parlato di social media Revolutions.

Si tratta di un'occasione propizia per riflettere sul ruolo che i social media hanno attualmente nelle pratiche di attivismo. In un articolo pubblicato sul New Yorker, esplicitamente intitolato Small Change. Why the revolution will not be tweeted, Malcolm Gladwell esprime una serie di riserve sulla capacità dei social media di favorire forme incisive di attivismo politico e sociale.

Pur condividendone l'idea di base, e cioè che i social media da soli non bastino a fare una rivoluzione – cioè a modificare la realtà e l'esistente – l'argomentazione di Gladwell appare inconsistente sotto molti punti di vista. In particolare perché sembra ignorare le specificità proprie non solo dei social media, ma dei media in generale. Secondo Gladwell, infatti, Twitter, Facebook e gli altri strumenti sociali non creerebbero quei legami forti che sono alla base di qualsiasi forma di attivismo in grado di incidere efficacemente sul reale.

Il giornalista sembra non tenere in considerazione il fatto che quasi ogni media crea legami deboli del tutto simili a quelli che egli imputa ai vari social networks. Così fanno la scrittura, la stampa a caratteri mobili e la radio. Tuttavia minimizzare il ruolo che la diffusione della stampa a caratteri mobili ha avuto durante le Guerre Contadine del XVI secolo o quello della radio nel creare il sentimento di appartenenza alla massa durante il Nazismo sarebbe del tutto fuori luogo. Nel bene e nel male anche queste erano forme di attivismo.

Marshall McLuhan ha mostrato che l'introduzione di un nuovo medium ridefinisce:

  • la fisionomia della cultura in cui viene introdotto;

  • i rapporti con gli altri media1. In questo senso pensare che i social media non abbiano avuto un ruolo di rilievo nelle recenti sollevazioni nordafricane non è semplicemente ingenuo, ma è del tutto miope.

Un altro punto di vista assai diffuso che tende a sottostimare il ruolo che i new media hanno giocato nelle mobilitazioni di questi mesi consiste nel mettere in dubbio la reale capacità di accedere alla rete nei paesi del Maghreb. È un dubbio legittimo, ma che imposta il ragionamento legandolo alla concezione occidentale e stabile della connettività e non tiene in conto la straordinaria diffusione nel continente africano della telefonia e delle tecnologie di connettività mobile.

Di questo e di tutta una serie di altri fattori bisogna tenere conto quando si tenta di dare una lettura del ruolo che la tecnologia ha svolto negli eventi che hanno infiammato il Nordafrica negli ultimi mesi, senza dimenticare di sottolineare le differenze che caratterizzano l'esperienza rivoluzionaria di ogni paese.

Dunque è necessario cominciare a chiedersi qual'è stato il ruolo e che peso hanno avuto i social media rispetto alla situazione che si è venuta a creare nel Maghreb in questi mesi. Ma soprattutto è necessario domandarsi quali pratiche e quali soggetti politici si sono affacciati sulla scena attraverso di essi.

Innanzitutto i new media hanno favorito una circolazione ampia e rapida della informazioni che ha contribuito a bypassare i media tradizionali (giornali e televisioni) saldamente nelle mani de Potere, permettendo di tenere costantemente aggiornati sugli eventi tanto la popolazione coinvolta nei movimenti insurrezionali, quanto il resto del mondo. Si è trattato di un fattore fondamentale: sia perché il flusso continuo di informazioni che si moltiplicava viralmente nella rete ha contribuito a rompere l'isolamento a cui gli insorti sarebbero stati condannati se non avessero potuto comunicare liberamente, sia perché in questo modo si è potuta costruire una narrazione comune fatta di immagini e suoni che fatto piazza pulita tanto delle contronarrazioni del Potere (gli insorti dipinti come terroristi, drogati, masse sobillate da fantomatici burattinai stranieri) quanto della narrazione occidentale che aveva, fin da prima dell'11 settembre, dipinto la società civile araba con le tinte care all'ideologia dello Scontro di Civiltà.

In secondo luogo, a partire da questa narrazione è stato possibile individuare l'emergere sulla scena di un nuovo soggetto politico (una nuova classe?). Quel “precario moltitudine” che è, oggi, il soggetto di tutte le lotte sociali che, in diverse parti del mondo (dall'Egitto al Wisconsin, come ricordava Valerio Evangelisti), si oppongono al neoliberismo.

Infine, nell'ambito di un capitalismo che sempre più – soprattutto in Occidente – si sta mutando in semio-capitalismo o info-capitalismo capace di mettere in produzione anche la socialità della vita umana, il fatto che i social networksdiventino un terreno di scontro sociale e politico non fa che confermare come siano sempre i luoghi della produzione quelli in cui si sviluppa la conflittualità e la coscienza di classe.

1Marshall McLuhan, Understanding media, pag. 63 “Ciò che voglio dire è che i media, in quanto estensioni dei nostri sensi, quando agiscono l'uno sull'altro, istituiscono nuovi rapporti, non soltanto tra i nostri sensi ma tra di loro”