"Sangue acido" su Manaròt. Rivista di letteratura atesina
Il 15 settembre del 2022 è uscito Atra, quarto e purtroppo ultimo numero di Manròt. Rivista di letteratura atesina. In Decay, il numero precedente delle rivista, era presente un mio racconto, intitolato "Sangue acido", che ripubblico qui.
Il fatto era clamoroso al punto che mi trovai mio malgrado immerso nel pettegolezzo. Ero tornato a Bolzano da qualche settimana, aggregato come PR & crisis management strategist presso gli uffici di un gruppo immobiliare locale impegnato in un’intensa azione di sviluppo in città. «Vediamo grandi potenzialità nella tua figura» mi aveva comunicato il CEO dell’agenzia di Berlino «per questo vogliamo offrirti questa opportunità». Io avevo annuito, mascherando l’inquietudine che provavo ogni volta che mi trovavo da solo nel suo ufficio.
«La tua conoscenza della città sarà una risorsa preziosa a cui attingere durante questo incarico». Aveva il fisico asciutto e teso di chi dalla sua dieta aveva eliminato i carboidrati in favore di un rigido regime chetogenico.
«Il cliente ha apprezzato moltissimo questo aspetto, quando gli abbiamo proposto il tuo profilo». Scolpito dall’esercizio fisico, quell’uomo emanava un’aria di minaccia anche quando sorrideva. Davanti a lui ti sentivi vulnerabile. Ti prendeva la consapevolezza che, se lo avesse voluto, avrebbe potuto spezzarti il collo con la stessa facilità con cui addentava le mele sulla sua scrivania.
«Occupandoti di questo progetto come responsabile avrai modo di dimostrarci il tuo valore. Porta a casa il risultato e ti assicuro che al tuo ritorno troverai ad attenderti una qualifica senior». Si allungò sulla scrivania, facendo leva sui gomiti per appoggiare il mento sulle dita intrecciate «E i relativi benefit».
Restai qualche secondo a guardarlo in silenzio, mentre il mio corpo si irrigidiva in modo innaturale sulla sedia. Non ero sicuro di voler tornare nella città in cui ero nato.
Poco dopo il liceo ero scappato da Bolzano, portandomi dietro le ferite di cinque anni d’inferno, passati a maledirmi per un’identità e un corpo che non sentivo miei, che nessuno mi permetteva di riconoscere. Quando ero approdato a Berlino qualche mese dopo, avevo trovato un’atmosfera in cui la benevola indifferenza delle persone si mescolava alla trascuratezza e al disordine della città. Per la prima volta mi ero sentito libero di respirare. Sotto lo spettro del muro ero rinato a nuova vita e avevo tracciato la mia via. Ciononostante accettai.
«Di cosa si tratta?».
Il CEO si abbandonò sullo schienale della poltrona. «Pubbliche relazioni» rispose pigiando due tasti sul portatile aperto davanti a lui. «Troverai tutto quello che ti serve sapere nel report che ti ho appena inviato».
Studiai i file durante il viaggio verso Bolzano. La Ganma Immo Holding rappresentava gli interessi di un immobiliarista austriaco in un progetto di sviluppo urbano che, se fosse stato realizzato, avrebbe cambiato volto alla città. Questo ne rendeva il percorso accidentato. Ambientalisti e anarchici l’avevano contestato duramente mentre crepe profonde si erano aperte nella politica locale. Per ben due volte il voto sul progetto aveva scosso gli equilibri di una giunta, facendola cadere. Il comune era stato commissariato per mesi. Solo grazie a un discusso referendum cittadino l’iter amministrativo era stato sbloccato e il cantiere avviato.
Sotto alla superficie c’erano diversi gruppi di potere che si affrontavano. Ognuno era concentrato per indirizzare gli eventi. Una gestione bilanciata e accorta dell’immagine dell’azienda e del progetto, capace di orientare in loro favore l’opinione pubblica, era cruciale per l’esito positivo dell’intera operazione.
L’idea di torpore provinciale che ancora conservavo di Bolzano e l’immaginario alla The Wire che quei documenti evocavano lottavano avvinghiandosi l’uno all’altra nella mia mente. Quando arrivai, in città mi parve non fosse cambiato nulla. Bolzano era sempre la stessa e, forse un po’ più pulita del solito. La gente era cordiale e distaccata.
Sotto il limpido cielo di un ottobre dalla temperatura stranamente piacevole pensai che forse avrei potuto darle una seconda possibilità. Ancora non avevo scoperto cosa dimorava nelle pieghe di quelle strade pittoresche.
Fu proprio quella mattina che ritrovai il diario e prese avvio la malaugurata catena di eventi che mi hanno portato a essere ricoverato in questa comunità dove, stordito dagli antipsicotici, scrivo queste righe, come ammonimento per chi potrà leggerle.
Rientrando dal bar verso la la stanza in cui alloggiavo, scorrevo distrattamente le notizie pubblicate da uno dei portali locali più influenti. Erano passati pochi giorni dal crollo dell’Hotel Eberle. Un pezzo di montagna si era abbattuto sull’edificio schiacciandolo al suolo. Fortunatamente l’albergo era chiuso e non c’era scappato il morto. Mi cadde l’occhio su un articolo intitolato “Quella cava dimenticata”. Il giornalista aveva raccolto impressioni di storici e geologi. Speculavano sulla presenza nella zona di un’antica cava di porfido, che veniva indicata tra le possibili cause dell’incidente. Altri, più prosaici, additavano alcune opacità nell’iter amministrativo che aveva autorizzato i recenti lavori di ampliamento dell’hotel.
Entrai in casa, aprendo la porta con circospezione. La proprietaria dell’appartamento non era appostata all’ingresso come al solito. Era una donna sgradevole e preferivo non incontrarla. Parlava un pessimo italiano e un dialetto tedesco strettissimo, del tutto incomprensibile. Era instabile e scostante. A volte si comportava affettuosamente, altre volte s’approfittava di me con quella crudeltà che gli anziani riservano di solito ai loro consanguinei. Decisi di approfittare della sua assenza per fissare una delle doghe del vecchio letto su cui dormivo. Dovevo fare attenzione a come mi comportavo da ospite, la signora era suscettibile e gelosissima dei suoi averi. Approfittare della sua assenza era il solo modo per farlo. Sollevai il materasso per capire quale fosse il problema ma sembrava tutto in ordine. Toccai le doghe e mentre lo facevo qualcosa cadde con un tonfo sordo.
Guardai sul pavimento, e nella polvere che si posava vidi un quaderno. Il suono della notifica mi ricordò che la riunione sarebbe iniziata a minuti. Non so bene perché, ma invece di rimetterlo a posto lo raccolsi e lo infilai nello zaino prima di precipitarmi di nuovo fuori dalla pensione.
La sede della Ganma Immo Holding occupava gli ultimi due piani di uno storico palazzo nel centro della città, a sottolineare l’intenso legame che la univa a essa.
Varcai il portone che si apriva accanto al gazebo di un ristorante che apparteneva alla Ganma ma, mi avevano raccontato, era chiuso da mesi.
Mi affrettai a salire le scale. Simon Kager, il proprietario, esigeva puntualità.
Quando entrai nella sala riunioni lui era già lì, in piedi vicino a un leggio su cui poggiava un portatile collegato al grande schermo alle sue spalle. Ovunque andasse era sempre circondato dai suoi collaboratori. Il modo in cui gli si distribuivano attorno rispecchiava l’equilibrio dei rapporti all’interno dello studio. A chi era permesso avvicinarsi di più spettava l’onore di essere la voce più influente e ascoltata. Ma si trattava di un equilibrio instabile. Kager era volubile e ci voleva un attimo per perdere ogni privilegio. Mappando la rete di relazioni di potere interne allo studio, come facevo ogni volta che venivo aggregato a un’azienda cliente, avevo scoperto che risalire la corrente era impresa per pochi. Chi commetteva gli errori più gravi preferiva andarsene, piuttosto che sopportare la pressione di un’improbabile rentrée.
Quando l’ultimo collaboratore si fu seduto, Simon Kager sollevò davanti a sé un blocchetto di fogli di carta. «La frana all’Hotel Eberle rappresenta una concreta minaccia per i nostri interessi». « »
La sua assistente si mosse, affrettandosi a distribuire a tutti i presenti una copia del fascicolo. Erano gli screenshot di una serie di commenti molto critici verso la proprietà dell’albergo, pubblicati su gruppi e pagine Facebook locali. Parlavano di abusi edilizi che sarebbero stati commessi durante i lavori di ampliamento dell’albergo e che, a dar retta alla vox populi, sarebbero stati all’origine del crollo.
«Se i sentimenti di sfiducia si diffondono, ci troveremo presto ad affrontare una nuova ondata di critiche. Dopo tutto il tempo che abbiamo già perso, ulteriori ritardi sarebbero inaccettabili».
Kager si voltò, «come possiamo gestire la situazione, dottore?”. Era la prima volta che si rivolgeva a me direttamente. Mentre si risiedeva, ebbi per un istante l’impressione che la scena davanti ai miei occhi tremolasse come un’allucinazione nel deserto.
«Per quanto ho potuto osservare, si tratta di critiche isolate e limitate a poche persone, i cui pregiudizi contro ogni forma di sviluppo immobiliare sarebbero facilmente dimostrabili». Kager si protese sul tavolo.
«Reagire con troppa veemenza a un evento che non ci riguarda direttamente potrebbe presentarci sotto una cattiva luce, come se stessimo nascondendo qualcosa. Tuttavia, nelle prossime settimane potremmo rilasciare una press release che presenti le misure di sicurezza che abbiamo adottato, nell’occasione potremmo organizzare una visita al cantiere per mostrarle in atto a una platea di giornalisti selezionati tra quelli più favorevoli al nostro progetto». Kager annuì.
«Nel frattempo metterò a punto un apparato di social listening per monitorare in diretta il sentiment della città rispetto al nostro progetto. Se qualcosa nell’atteggiamento dell’opinione pubblica dovesse cambiare, saremmo i primi ad accorgercene e potremmo intervenire tempestivamente».
«Proveremo a fare come dice l’esperto allora». dichiarò Kager soddisfatto. «Adesso tutti al lavoro!»
I collaboratori di Kager si alzarono quasi all’unisono dalle loro sedie. Ero appena diventato una minaccia per loro e mentre sciamavano fuori dalla sala, accompagnati solo dal fruscio delle loro scarpe sulla moquette, percepii l’odio con cui mi sommersero come una colata di cemento.
Prima che potessi uscire, Kager mi fermò.
«Deve scusare la mia irruenza, dottore. Questo progetto è cruciale per lo studio e abbiamo avuto già molti problemi di immagine».
«Capisco benissimo la situazione. Ma non si preoccupi, raramente il rumore di fondo dei social diventa una minaccia concreta».
«Capisco poco di queste diavolerie moderne. Di sicuro ha ragione lei». Gli risposi con un sorriso, mentre mi accompagnava verso la porta della sala riunioni. «Ma si ricordi che le scelte avventate qui non si dimenticano», aggiunse mentre mi incamminavo verso le scale.
Riemersi dal portone del palazzo pensando a quanto ero fortunato a non dover lavorare negli uffici della Ganma. Come consulente potevo svolgere la mia attività da remoto.
Sui prati del Talvera c’era un piacevole tepore, ed era balsamica l’idea di passare qualche ora all’aria aperta prima di pranzo. Per quanto la riunione fosse stata breve, mi sentivo come svuotato da quel confronto. Mi abbandonai su una panchina di legno e mi ricordai del quaderno che avevo trovato nella soffitta dell’appartamento. Lo tirai fuori dallo zaino e cominciai a esaminarlo.
La copertina aveva un motivo minerale screziato di riflessi grigi e violacei. Accarezzandola sembrava che i polpastrelli trasmettessero una sensazione di ruvidezza che era, naturalmente, solo un’illusione tattile. Le pagine erano ingiallite e gonfie d’umidità .
Lo aprii maneggiandolo con estrema attenzione per non sbriciolarlo. L’intestazione riportava il nome di un certo Hannes Haeneke, dottore geologo presso l’università di Lipsia. La prima annotazione era datata 18 agosto 1803, descriveva la partenza del dottor Haeneke dalla cittadina tedesca. L’accademico era diretto a Bolzano, dove era stato incaricato di condurre una campagna di rilievi geologici. Le pagine seguenti si soffermavano a lungo sui dettagli del viaggio. Sul suo diario, Haeneke annotava in lunghi elenchi nomi di villaggi e locande, di elementi della fauna e dettagli geologici, nonché prolisse descrizioni delle condizioni climatiche. Nonostante la verbosità, c’era qualcosa di vivido nella sua scrittura. Proseguendo si aveva l’impressione che, avvicinandosi alle Alpi, il paesaggio trascolorasse dall’estate all’autunno scandendo tanto il passare del tempo quanto quello dei chilometri.
Il cinque ottobre di quell’anno, Bolzano faceva la sua prima comparsa nel diario.
Fu ingeneroso da parte di Mozart definire questa cittadina borghese e sonnacchiosa un «buco di culo da porci». Non si respira l’aria grave e mondana della corte viennese, ma la gente è cordiale nel suo distacco, il clima mite e il cibo buono. Dal punto di vista geologico invece la conca di Bolzano riflette l’immagine fattami dai miei corrispondenti: una grossa piattaforma porfirica il cui aspetto antico e solenne è rifratto in tutta la città. Numerose infatti sono le cave da cui viene ricavato questo materiale, destinato ai più vari utilizzi nella costruzione di muratura o per la pavimentazione delle strade.
Chiusi il diario, si era fatta ora di pranzo. In quelle settimane mangiavo spesso in un locale aperto poco tempo prima nella stube dell’Hotel Luna, uno storico albergo del centro cittadino. Era uno dei pochi ristoranti, forse il solo in città, in cui si respirava quell’aria cosmopolita che rendeva meno penosa la mia mancanza da Berlino. Lo gestiva un energico terzetto – marito, moglie e fratello – con cui ero entrato presto in confidenza.
Tra i tre avevo legato soprattutto col fratello, un signore di mezza età di nome Robert, che gestiva la sala e la cantina. Capitava spesso che mi fermassi insieme a lui, dopo la fine del servizio, per gustare un ultimo bicchiere. In quelle occasioni era solito scegliere bottiglie di qualche piccolo produttore biodinamico su cui aveva sempre un aneddoto o una curiosità che davano all’assaggio un certo fascino esoterico, come se quei vini fossero un segreto che condivideva solo con poche persone. Mi raccontò anche della sua passione per un romanzo del giornalista americano Gay Talese. Si intitolava Onora il padre e parlava degli anni in cui Talese era stato a contatto con una famiglia mafiosa italoamericana, di cui riportava la storia con il tatto e la delicatezza di cui solo un grande autore era capace. Eravamo rimasti d’accordo che me lo avrebbe prestato, finché un giorno non capitò che mi fermai dopo pranzo per esaminare alcune carte di lavoro. Il progetto della visita stampa presso il cantiere era andato avanti e mi ero assunto il compito di organizzarlo.
Quando Robert si avvicinò al mio tavolino, come faceva di solito in quelle occasioni, non poté fare a meno di notare il logo della Ganma.
«Lavori per il signor Kager?».
Alzai gli occhi dal foglio che stavo leggendo e lo guardai. C’era una sfumatura fredda nel tono con cui mi aveva rivolto quella domanda.
«Svolgo per lui una consulenza per conto dell’agenzia in cui lavoro a Berlino. Curo l’immagine pubblica del cantiere».
«Pare un lavoro interessante».
«A dire il vero non più di altri che ho seguito in passato. Ci facciamo un bicchiere?».
«Oggi non posso, ero solo passato a farti un saluto. Poi stai lavorando, non mi va di disturbarti».
Prima che potessi dirgli che avrei gradito volentieri una pausa, si era già allontanato. Da quel giorno iniziò a trattarmi con distacco. Non che fosse diventato scortese, ma era come se avesse smesso di soffiare su quella brace di amicizia che sembrava essersi accesa tra di noi. Così, piano piano, l’affinità si spense e mi dispiacque perché la sua presenza era una presenza gradevole, che rendeva meno solitaria la mia permanenza a Bolzano.
Tuttavia non diedi troppa importanza all’episodio. Il lavoro mi assorbiva e, quando non lavoravo, passavo molto tempo ad addentrarmi tra i meandri del diario del geologo Haeneke che attirava la mia attenzione con un’irresistibile forza, quasi magnetica.
Dopo il suo arrivo in città, Haeneke spese molte pagine per descrivere i preparativi e l’avvio della sua campagna di studi. Il cantiere pareva circondato da un alone di misteriosa sfortuna.
Era stato difficile assumere le maestranze necessarie, le più esperte tra le imprese locali avevano rifiutato in massa ogni proposta e Haeneke era stato costretto a rivolgersi a gente che lui stesso definiva «di dubbia moralità». Erano perlopiù sbandati o forestieri, gente che sapeva sì tenere in mano un piccone, ma che mancava della perizia propria di un operaio specializzato. Ma nonostante la scarsa qualità del materiale umano, il cantiere s’era avviato lo stesso, salvo poi doversi fermare per una serie ininterrotta di incidenti. Tra arnesi che si usuravano rapidamente, piccoli crolli e infortuni più o meno gravi, la campagna di scavi procedeva a rilento. Eppure procedeva, tanto che qualche mese dopo la data di inizio dei lavori, Haeneke annotava nel suo diario che:
[...] a dispetto delle difficoltà incontrate i lavori di scavo procedono e mi permettono di acquisire ogni giorno sempre più dati utili ai miei studi. Sembra che la grande piattaforma porfirica su cui è adagiata la città di Bolzano si estenda molto più a lungo e in profondità di quanto non apparisse in precedenza. Sembra che questa roccia innervi ogni fessura del terreno circostante, come fosse sangue mineralizzato nelle vene di questa terra. È vivida la sensazione che l’intera piattaforma risalga a tempi antichissimi, forse più antichi ancora di quanto immaginassi prima di iniziare e questo è assai strano, come è strano il fatto che sia così difficile stabilire l’origine di queste rocce. La grana finissima, afantica micro e criptocristallina, che presentano le classificherebbe come rocce eruttive ipoabissali oppure vulcaniche, ma mi è stato impossibile appurarlo con certezza. Pare come se, a volte, l’origine fosse tanto di un tipo, quanto di un altro, come se in questa zona le enormi forze che hanno modellato il pianeta si fossero sovrapposte e scontrate dando vita a questa formazione. È un mistero questo su cui voglio indagare ancora, e perciò chiederò un ulteriore sostegno economico ai miei protettori. Ho intenzione di spingermi in profondità nel cuore della piattaforma porfirica, per vedere se riuscirò a svelarne il mistero.
Di pagina in pagina, era finalmente giunto il giorno dell’evento. La mattina prescelta mi presentai davanti ai cancelli del cantiere. Lo scavo si trovava sulla sommità della collina del Virgolo e dominava la città, avvolta nell’umidità che annunciava le prime piogge d’autunno. I giornalisti arrivarono qualche minuto dopo, a bordo di una navetta che la Ganma aveva organizzato per condurli al cantiere lungo la strada di servizio aperta sul fianco della collina. Simon Kager scese insieme a loro e prese posto sul palchetto che avevo fatto sistemare di fronte all’ingresso del cantiere. Avevo disposto che i lavori procedessero anche durante la visita, per dare ai partecipanti l’idea di una cantiere vivo e operativo, per cui camion e operai si muovevano alle sue spalle. Ai completi sartoriali che indossava abitualmente, quel giorno aveva preferito un abito più informale. Calzava scarpe robuste ed eleganti, un paio di jeans e, sopra a una spessa camicia a quadri, portava un gilet smanicato. Dovetti ammettere che Kager sapeva il fatto suo. Così vestito dava l’impressione di essere un capocantiere navigato e raffinato allo stesso tempo. Solo l’elmetto di plastica gialla appariva incongruo. Ma tra gli astanti nessuno avrebbe notato quel dettaglio ridicolo alla George W. Bush.
Avevo selezionato con cura i giornalisti più favorevoli al progetto e alla Ganma, che contribuiva in modo generoso alla raccolta pubblicitaria delle testate per cui lavoravano.
«Sono molto felice di avervi qui» esordì Simon Kager rivolto al suo pubblico.
«Questo cantiere, il cui buon esito contribuirà a trasformare il volto della nostra amata città, non è solo un progetto immobiliare e di sviluppo chiave per il futuro di Bolzano. Vuole essere anche l’occasione per sperimentare le tecniche costruttive più all’avanguardia sul mercato».
La sua voce decollava dalle casse dell’impianto audio, sollevandosi sopra il frastuono del cantiere con una leggera sfumatura metallica.
«Chi fa il nostro mestiere oggi vive un’epoca di transizione e grandi cambiamenti. La digitalizzazione e la crisi climatica ci pongono di fronte a sfide che dobbiamo vincere, per garantire alla nostra specie quella continuità che tutti auspichiamo. Nella storia del rapporto tra l’uomo e la natura, i tempi in cui viviamo rappresentano un emozionante campo di battaglia che sarà imperativo dominare».
Kager terminò il discorso tra gli applausi dei giornalisti. Il fotografo ufficiale scattò diverse pose mentre l’imprenditore scendeva dal palco e, con gesto plateale, faceva loro strada all’interno del cantiere. Proprio mentre la solennità di quel momento lasciava posto all’informalità propria di un evento tra amici, l’aria si riempì di un boato minerale.
Una grossa porzione della parete che sovrastava l’area del cantiere si staccò di netto, precipitando a terra. In un istante l’aria fu satura della polvere brunita del porfido, che attaccò i polmoni. Rochi e profondi colpi di tosse punteggiavano l'ordito di grida che si levò lungo il cantiere. Gli operai presero a chiamarsi l’un l’altro. La frana aveva sciolto ogni legame sociale all’interno del cantiere, scaraventando tutti i presenti nella nuda consapevolezza della propria natura mortale. Man mano che la polvere prese a posarsi cominciò a salire un silenzio tetro. In quel marasma solo Simon Kager sembrava aver conservato la sua calma. Spiccava in mezzo alla polvere grazie al suo elmetto giallo, che ora gli dava l’aura del comandante nel cuore del naufragio.
«Non c’è nulla di cui preoccuparsi» gridava. «La visita può continuare!»Ma la sua voce si perse nel vuoto di quel momento tragico.
«Da questa parte signori!» gridò un’ultima volta.
Poi mi scorse nel piazzale, da cui mi stavo allontanando. Lo sguardo che mi rivolse era deluso e privo di empatia. In quella un operaio gli passò accanto correndo. Kager lo afferrò per un braccio e glielo torse con violenza, gridando qualcosa che non riuscii a udire. Un brivido mi riempì il cuore di terrore. Ebbi la sensazione che, se avesse potuto, Simon Kager mi avrebbe ucciso in quel preciso istante.
Seguirono giorni convulsi. Per la seconda volta nel volgere di pochi mesi, un crollo aveva scosso la quiete della città. Due operai erano stati travolti e uccisi dall’enorme lastra di porfido che era precipitata sul cantiere. Le autorità giudiziarie avevano disposto il blocco dei lavori e apposto i sigilli ai cancelli. L’inchiesta sarebbe stata lunga ma l’indiscrezione che i due sventurati erano stati assunti senza regolari tutele da una delle tante ditte a cui erano stati affidati gli appalti del cantiere divenne pubblica rapidamente. E anche se molti erano i nostri alleati nella stampa locale, la cui copertura dell’evento fu improntata a un distaccato garantismo, sui social il tono delle conversazioni si era alzato.
Le voci più critiche sollevavano indignazione e sempre più spesso veniva messa in dubbio l’utilità del cantiere. Il tool di ascolto che avevo messo in opera nelle settimane precedenti ribolliva. Contenere il danno d’immagine intervenendo in quel diluvio di conversazioni che si moltiplicavano era un lavoro ingestibile per una sola persona.
Anche se avevo predisposto una serie di automazioni, l’ausilio di un piccolo team avrebbe reso la mia azione più efficace. Mi sentivo come se per ogni rattoppo che provavo a cucire su quella situazione, altre due fessure si aprissero nella trama della pubblica opinione e da quegli strappi colava, sempre più forte, un sentimento ostile al progetto. In tutto questo ero stato allontanato dal novero dei collaboratori. Simon Kager si faceva vedere pochissimo. Le riunioni di équipe erano state sospese e le decisioni venivano prese da una cerchia ristrettissima di cui facevano parte solo i collaboratori più fidati.
Ottenere informazioni utili a svolgere il mio compito era impossibile e ogni volta che mettevo piede nell’antico palazzo sentivo intorno a me un clima di paura, diffidenza e ostilità. Una mattina scoprii che l’ingresso della Ganma veniva presidiato da guardie armate e Simon Kager lo lasciava solo se accompagnato da quattro gorilla addetti alla sua protezione. Non seppi capire se presentarsi come una persona in pericolo di vita si trattasse di un’astuta mossa d’immagine, o se Kager temesse davvero per la sua incolumità. Rivolsi i miei dubbi ai vertici dell’agenzia, durante una lunga call in cui mi fu chiesto un dettagliato report della situazione.
«Capisco che la situazione sia grave e complessa» mi aveva comunicato il managing director dell’agenzia «ma non possiamo affiancarti altro supporto oltre a quello di cui già disponi».
«Non sto dicendo che quanto è successo sia una tua responsabilità» aveva aggiunto il CEO ma in questo momento devi farti carico delle conseguenze».Chiusi la chiamata con la sensazione che in agenzia ritenessero che quel disastro comunicativo fosse colpa mia.
Il pensiero mi gravava e mi spingeva a lavorare con sempre maggiore impegno. Mi trattenevo negli uffici della Ganma ben oltre l’orario di chiusura e rincasavo spesso attraversando il centro di quella città che, nelle ore notturne, era deserta e vuota di vita, come se i suoi abitanti temessero un qualche orrore in agguato nel buio.
Fu al termine di una di quelle interminabili sessioni di lavoro, mentre scendevo lo scalone che portava all’ingresso del palazzo, che lo vidi per la prima volta. Il simbolo campeggiava su una delle pareti del giroscale, circonfuso in una fosforescenza violacea di cui non comprendevo l’origine. Era costruito intorno a un cerchio che racchiudeva una specie di A maiuscola al suo interno. Dalla circonferenza esterna, in alto, tra le dieci e le due, emergevano due tratti che ricordavano due erre opposte, mentre in basso, in corrispondenza delle sei, si allungava un peduncolo con due escrescenze. Rimasi a fissare quel simbolo che emanava mistero, domandandomi cosa fosse, cosa significasse e, soprattutto, come fosse apparso all’interno di un palazzo sorvegliato da guardie armate. Quella notte sembrava che non ci fosse nessuno e fu proprio mentre mi stavo chiedendo dove fosse la sicurezza che vidi una sottile lama di luce tagliare l’oscurità dell’androne. Un’ombra sgattaiolava fuori da uno spiraglio nel portone. Mi gettai al suo inseguimento nel cuore della città addormentata.
La vidi svoltare nel vicolo più vicino e le tenni dietro. Ancora non so spiegare da dove attinsi le forze per quell’inseguimento. L’aria umida e fredda della notte bruciava i polmoni e i muscoli delle gambe, intorpiditi dalle lunghe ore passate alla scrivania, urlavano il loro disappunto per quella corsa folle. Ciononostante recuperai presto terreno sull’ombra che scappava. La braccai ancora, strada dopo strada, svolta dopo svolta. L’inseguimento terminò di fronte al muretto che delimitava un vigneto.
«Chi sei e cosa ci facevi nella sede della Ganma?» L’ombra non rispose. Feci un passo avanti nella sua direzione, bloccandole la via di fuga.
«Che cos’è quel segno che hai tracciato sulla parete?» Un tremolio mi attraversò le dita delle mani. Le strinsi in un pugno per riprendere il controllo.
«Si tratta forse di una minaccia?», le urlai senza riuscire a trattenere una lieve strozzatura nella voce.
L’ombra allora fu scossa da una stridula risata. Sembrava provenire da una qualche cavità nascosta e fluiva attraverso l’aria diventando sempre più intensa.
«Una minaccia dici?»
Mi guardai intorno disorientato.
«Una minaccia?» ripeté l’ombra con tono beffardo.«Oh sì, certo che siamo una minaccia mia cara. Una minaccia terribile»
Feci un passo indietro, mentre l’ombra, che fino a quel momento m’era apparsa piccola e inoffensiva, sembrava dispiegarsi tutto intorno a me, allungandosi verso l’alto.
«Noi sappiamo chi siete» continuò «Siete nemici, siete assassini. Voi ci volete morti. Ma tu e Kager non ci avrete».
L’ombra fece un passo avanti, scostandosi il cappuccio che le copriva la testa. Apparve il volto di Robert. Lampi purpurei gli deformavano il viso.
«No, non ci avrete mai, Sandra, perché morirete prima».
La sua voce era un ruggito nella notte. Mi paralizzò, come se pronunciando quelle parole Robert mi avesse avvinto a un qualche incantesimo arcano. Erano anni che nessuno si rivolgeva a me usando il mio deadname.
Poi balzò in avanti, gettandomi contro una delle pareti del vicolo.
Battei la testa contro un mattone e lo vidi fuggire, inghiottito dall’oscurità. Tornando a casa un senso di minaccia prese possesso della mia mente. Mi chiedevo come quello sconosciuto avesse potuto scoprire quel nome che credevo di aver consegnato all’oblio.
E per quale motivo mi aveva aggredito? Cosa aveva a che fare Robert con Simon Kager e il suo progetto?
Le orecchie mi fischiavano forte mentre salivo le scale del palazzo per rientrare al mio appartamento. Entrai in camera senza farmi scrupolo di essere silenzioso; la proprietaria era fuori città, ospite di alcuni parenti. Accesi la luce e il diario di Haeneke era lì, sul comodino. Il lavoro mi aveva assorbito al punto che non lo aprivo dal giorno dell’incidente. Era come se, nel silenzio della mia stanza immersa nel cuore della notte, quelle pagine mi stessero chiamando. Senza neanche togliermi i vestiti mi sdraiai sul letto e iniziai a leggerlo dal punto in cui l’avevo interrotto settimane prima.
Lo scavo della galleria ha destato numerosi turbamenti in città. Giorni fa, il vescovo e il borgomastro, accompagnati da alcuni notabili, sono venuti in delegazione chiedendo di interrompere gli scavi. Gli ho risposto che il cantiere godeva di tutte le autorizzazioni e i permessi del caso, ma a nulla sono valse le mie ragioni. Sulle prime era come se fossero spaventati, ma verso la fine della discussione erano diventati minacciosi e aggressivi, tanto che mi sono preoccuopato. Ma per nulla al mondo interromperei gli scavi adesso. Più procediamo nelle profondità della placca, più il mistero del porfido si fa irresistibile. Dopo aver avanzato a lungo nel gelo della nuda roccia, l’aria all’interno della galleria si è fatta dapprima tiepida e poi sempre più calda. È qualcosa che non avevo mai osservato prima e di cui non sono ancora riuscito a venire a capo. Se poche notti fa non fossi stato aggredito da un folle, avrei già esplorato l’ultima parte del tunnel, quella in cui sono più numerose certe complesse formazioni cristalline che appaiono nella roccia con sempre maggiore frequenza. Sulle prime non ci avevo fatto caso, ma mano a mano che mi addentravo nella roccia quei cristalli sembravano formare un motivo preciso e regolare, basato su un simbolo la cui natura e il cui significato mi sono oscuri…
Il diario si interrompeva, sospeso su quella frase dal significato misterioso. Girai la pagina e quello che vidi mi colpì con la forza di un pugno. Sull’ultima pagina del diario, Haeneke aveva schizzato l’oscuro simbolo a cui faceva riferimento. Lo stesso che Robert aveva tracciato sulla parete dell’androne della Ganma. Sbagliarsi era impossibile. Restai a fissare il glifo tracciato sulla pagina con gli occhi sgranati. Un senso d’angoscia s’impadronì di me. Il diario non offriva alcuna soluzione a quel mistero che aveva attraversato la grana del tempo per giungere fino a me.
Esaminai il diario con cura e nella copertina notai una tasca di cui non mi ero mai accorto prima.
La aprii. Dentro c’era un foglio di carta velina che feci scivolare con delicatezza. Era una mappa muta. Mi alzai di scatto e corsi a rovistare tra i cassetti dello scrittoio della proprietaria, dove teneva una vecchia cartina della città. La spiegai sul tavolo e vi sovrapposi la mappa di Haeneke. Ci misi qualche minuto a far combaciare i punti di riferimento segnati sulla velina sottile, e quando lo feci notai che il geologo aveva segnato quello che ipotizzai fosse l’ingresso dello scavo. Si trovava solo qualche centinaio di metri più in alto rispetto al cantiere della Ganma. Non so cosa mi prese in quel momento, ma pensai che dovevo sapere a tutti i costi se quel tunnel fosse ancora lì.
Indossai il completo da trekking che mi ero portato da Berlino e uscii di casa nel livore dell’alba. La cartina mostrava un piccolo sentiero che dalla città saliva lungo il lato nord del Virgolo.
Era stretto e disadorno, tra i cespugli affioravano immondizia abbandonata e i segni dei bivacchi di qualche senzatetto. Mi inerpicai, scivolando sul fango e le foglie umide fino a una vecchia e malridotta scaletta di cemento. La percorsi ben oltre l’area del cantiere, i cui segni affioravano di quando in quando dal fitto del bosco. Dopo essere salito un bel pezzo sopra il cantiere, la scala s’interrompeva. Da quello spiazzo potevo vedere il centro della città che pian piano andava animandosi. Ero salito lassù avanzando con foga, divorando il dislivello che s’attorcigliava lungo il fianco della collina. Mi fermai a riprendere fiato, chiedendomi cosa avrei fatto a quel punto. La mappa di Haeneke era tremendamente imprecisa e non avevo altri punti di riferimento al di fuori di essa. Quando ebbi riacquistato lucidità mi fermai a osservare il bosco intorno a me. Un segno blu scolorito occhieggiava su un tronco alla mia destra. Mi avvicinai per scoprire una piccola traccia, quasi scomparsa, che tagliava la collina, correndo intorno a essa. Pochi minuti dopo mi trovai di fronte ad un’apertura nella roccia. Assi marce su cui si arrampicava la vegetazione ne chiudevano la luce. Mi tornarono in mente le storie dei bunker che mi raccontavano i miei genitori. Abbandonati dai nazisti in ritirata, attiravano i ragazzi nelle loro scorribande e più d’uno era rimasto ferito o ucciso dagli scoppi di munizioni in disuso. Con quel ricordo in testa svelsi le assi ed entrai nella galleria.
Nulla mi assicurava che fosse davvero quella di cui parlava Haeneke nel suo diario, ma qualcosa mi spinse ad andare avanti nel buio, rischiarato soltanto dalla luce di una pila frontale. Un vento gelido spirava nel condotto. Eppure, man mano che procedevo, era come se quella corrente andasse mitigandosi, lasciando il posto a un incongruo tepore. Più questo aumentava e più uno strano bagliore rossastro invadeva lo spazio del cunicolo.
Nel suo diario Haeneke non ne aveva fatto menzione, ma man mano che rischiarava cominciai anche io a notare le formazioni cristalline descritte dal geologo. Erano in tutto e per tutto uguali al simbolo che avevo visto tracciato da Robert nel palazzo della Ganma e sembrava fosse proprio da loro che emanava quella strana luce.
Lo spettacolo mi riempì il cuore di meraviglia e inquietudine. Come era stato possibile che quel prodigio geologico fosse rimasto nascosto per tutto quel tempo era un interrogativo a cui la mia mente non riusciva a dare risposta. Fu proprio mentre mi facevo queste domande che lo udii per la prima volta. Dapprima sommesso, il borborigmo sembrava salire dalle profondità del pianeta, come un suono antichissimo che esplode al presente amplificato attraverso le ere. In un istante riempii l’intera cavità con il suo timbro metallico e avvolgente. Una pulsazione attraversava le formazioni di cristalli sulle pareti, facendole vibrare di una vivida luce violacea. Il battito stroboscopico saturava la galleria. Il respiro del porfido mi avvolse, abbracciandomi come magma. Era come una forza aliena che affiorava dalle profondità del tempo e dello spazio, facendomi sentire minuscolo di fronte alla sua rabbia di bestia ferita. Tracimava d’odio, un odio che faceva fluire attraverso il mio corpo colmando d’orrore la mia mente. Mi sentii tirare all’estremità, come se quell’entità stesse provando a lacerarmi e mi rassegnai alla morte.