La vita intima dei loghi di fronte all'orrore dell'interregno - recensione e presentazione di LOGO In Real Life - Bolzano 21 gennaio

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Martedì 21 gennaio alle 18.00 presenterò, insieme a Marcello Barison, il libro LOGO In Real Life di Michele Galluzzo al coworking Drin di Bolzano.

“Pintarelli, copri quella maglietta per favore”.

Facendo un paio di conti approssimativi, saranno passati più di vent’anni dalla mattina in cui il mio professore di filosofia del liceo mi ha rivolto questa frase.

Il motivo? È presto detto: quel giorno indossavo una t-shirt nera che al centro del petto aveva stampato il logo della casa automobilistica Ford; solo che al posto del cognome del celebre Henry c’era scritta la parola “fuck”.

"Scusi prof, perché?" chiesi io.

"È offensiva. Inadatta al contesto scolastico", rispose.

Provai timidamente a perorare la causa di quella maglietta, ma non ci fu margine di negoziato. Fino alla fine dell’ora sudai sotto la felpa che, per mia fortuna, non presentava loghi offensivi.

Se qualcuno dovesse mai avere la bislacca idea di scrivere la mia biografia, non credo che questo episodio vi troverebbe un posto. È insignificante, ma non tanto da essersi meritato l'oblio.

A farmelo tornare in mente, giusto qualche settimana fa, è stata la lettura di un libro, LOGO In Real Life, del designer e ricercatore Michele Galluzzo.

A parlarmi per la prima volta del suo lavoro - delle ”note per una storia sociale della visual identity",come recita il sottotitolo del libro - è stato un amico comune, Silvio Lorusso.

Così, prima che il libro uscisse per i tipi di krisis publishing, con cui ho contatti da un po', Michele e io ci siamo visti in un locale per fare conoscenza. Michele, infatti, fa ricerca alla Libera Università di Bolzano.

È stata una serata piacevole, e mi ha fatto venire voglia di leggere il libro che mi ha fatto a sua volta tornare in mente quella mattina a scuola. E la maglietta che indossavo.

A memoria, quella è stata la prima volta in cui ho preso coscienza che i loghi avevano la capacità di esercitare un impatto concreto sulla vita delle persone.

Fino a quel momento non gli avevo dato poi tanto peso, a quelle immaginette che, stampate o teletrasmesse, ci comparivano intorno un po' dappertutto a cavallo tra la fine degli anni '90 e l'inizio degli anni '00.

A differenza di altri, io non aveva mai provato l'esperienza di esclusione di cui ho sentito raccontare da parte da chi aveva avuto la sfortuna di farsi bullizzare perché non indossava le scarpe marchiate con il logo giusto che, all'epoca, era il celebre Swoosh di Nike.

A pensarci mi era andata anche bene. Il mio primo incontro con il potere dei loghi avveniva in uno scontro con l'autorità da cui, è vero, ero uscito perdente ma, quanto meno, mi consente, adesso, di riscriverlo ammantandolo di una certa epicità.

Per di più, il logo che fece da pomo della discordia in quell’occasione non era nemmeno un logo originale, bensì una caricatura.

Ne giravano parecchi, in quel periodo, di capi di abbigliamento decorati con le caricature di loghi famosi, in particolare felpe, magliette e cappellini.

Ne ricordo una che trasformava in “Punkers” il logo presente sull’incarto delle barrette Snickers e un’altra, incredibile, su cui, erano i tempi della privatizzazione dei telefoni di Stato, le parole "Sip. Telecom Italia" diventavano la frase “In trip. Telecoma Italia”, evidente quanto elaborato riferimento al legame tra esperienze psichedeliche e tecnologie digitali che caratterizzava la rave culture italiana e la sua relazione con il cyberpunk.

Ripesco questi immagini dalla memoria perché mi servono come piccoli, personali esempi per spiegare la tesi che fa da apripista al lavoro di Galluzzo: nel momento in cui escono dai manuali di corporate identity e si confrontano con il mondo reale, lì dove trascorrono la maggior parte delle loro esistenze, i loghi iniziano a vivere di vita propria.

Una vita intima, personale e, soprattutto, libera dalle costrizioni che i designer provano a imporre loro nelle linee guida con cui si illudono di poter imporre un controllo agli artefatti che realizzano.

Un illusione che Galluzzo decostruisce mettendo in fila nelle sua note una serie di "casi studi" che mostrano i molti modi in cui alcuni dei loghi più celebri e iconici della cultura pop contemporanea sono stati appropriati dalle persone per le ragioni più diverse: dal puro godimento estetico all’attivismo politico, dall’elaborazione artistica alla critica sociale, dal marketing pirata alle esigenze di autorappresentazione delle minoranze o delle sottoculture, fino alla rievocazione nostalgica di epoche mai vissute.

Galluzzo si mette al lavoro attigendo i suoi strumenti alla cassetta degli attrezzi della storia sociale che, applicata all’universo della comunicazione visiva, lo aiuta a spostare l’attenzione da chi i loghi li crea a chi i loghi li fruisce.

Un cambio di prospettiva tanto produttivo quanto poco praticato, grazie al quale Galluzzo riesce a far emergere la natura aperta dei loghi in quanto artefatti visivi sociali, articolando una critica alla storia della grafica che si muove sul piano del metodo.

Nel momento in cui la storia della grafica ne ignora o sottostima la natura aperta e sociale, restando fedele a una concezione della Storia come successione di eventi cruciali che si dispiegano nel tempo per l’azione di personalità titaniche, essa finisce per trattare i loghi come espressioni del genio individuale dei loro creatori; opere d’arte di cui analizzare le qualità formali, astraendole dai propri contesti d’uso e fruizione.

Così facendo assolve a una funzione ideologica: costruire una narrazione epica del modernismo e dei suoi protagonisti. Un velo dietro a cui si nascondono le complicità che il lavoro creativo intrattiene con il modello di produzione capitalista e i suoi processi di valorizzazione della merce.

L'apice del modernismo coincide infatti con il boom economico che, in Europa e negli Stati Uniti, segue alla Seconda Guerra Mondiale e segna anche la cosiddetta golden age della corporate identity, ovvero il periodo in cui i graphic designer assurgono al ruolo di veri e propri demiurghi della comunicazione pubblicitaria.

Una posizione ormai anacronistica, insostenibile.

Con la fine degli anni '70 del Novecento l'utopia moderna inizia il suo declino, un tramonto in cui le ombre della modernità sembrano allungarsi all'infinito nella lunga serie di prefissi che provano di continuo a resuscitarla: post, sur, iper.

Il racconto epico dell'utopia moderna si riduce così nella ripetizione esausta e spettrale, così la descrive Mark Fisher nei suoi scritti, di modelli narrativi, pose e tic in cui il passato oblitera il futuro in un eterno presente che sembra non passare mai, come il trillo agonizzante di un computer che, sovraccarico di processi, scivola verso l'arresto del sistema con estenuante lentezza.

Nell'oscurità in cui il designer si trova precipitato mano a mano che le ombre del nuovo secolo soffocano il tramonto dell'utopia moderna una necessità gli si presenta davanti agli occhi: quella di ripensare il ruolo che la storia della disciplina gli assegna.

Non più strumento che imprime ordina alla realtà col potere del suo genio, il designer si trova costretto a riconoscere il caos di un epoca in cui il vecchio è morto e il nuovo ancora non può nascere, per abbracciarlo e (provare a) gestirlo mentre intorno a lui implacabili sorgono nuovi e spaventosi orrori.

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