Prolegomeni a una teoria marxista del calcio - recensione e presentazione di "Fare gol non serve a niente" - Bolzano 28 ottobre
In The future of nostalgia, la scrittrice Svetlana Boym distingue due tipi di nostalgia. La prima, detta "restaurativa", è la nostalgia per un età dell'oro che ci si affanna per far rivivere nel presente. Uno sforzo vano perché, così sostiene Boym, quell'età dell'oro non è mai esistita.
Essa non è altro che la nostra proiezione di un passato mitico alla quale deleghiamo il compito di sollevarci dalle miserie del tempo in cui ci è dato di vivere.
Questo genere di nostalgia è impressa a fuoco in molte - forse nella maggior parte - delle narrazioni oggi in voga intorno al gioco del calcio. Cos'altro è, per esempio, lo slogan "no al calcio moderno" se non un modo per costruire un passato mitico con cui redimere un presente che non si è stati capaci di orientare attraverso l'azione politica autonoma e organizzata?
Dopotutto il calcio, così sostiene Luca Pisapia nel suo ultimo libro, Fare gol non serve a niente, non è mai stato innocente e, soprattutto, è sempre stato moderno.
Moderno nel senso che - questa la tesi che Pisapia esprime in questo saggio dedicato al rapporto tra finanza e pallone - il calcio è un prodotto del conflitto tra capitale e lavoro e, in quanto tale, anticipa o segue le forme che questo conflitto assume nel corso della storia.
Per dimostrarla, Pisapia traccia un percorso in cui intreccia la storia del calcio a quella dello sviluppo del sistema economico capitalista, mostrando come a ogni punto di svolta dell'uno corrisponda un punto di svolta dell'altro e come entrambi questi poli si influenzino a vicenda.
La progressione di questo percorso però è tutto tranne che lineare. Il progetto e la scrittura di Pisapia procedono piuttosto per piani che, aprendo squarci nella trama dello spazio e del tempo, mostrano come elementi di futuro siano già presenti in un tempo che ne precede il pieno sviluppo o in un luogo capace di toccare punte di presente in modo più intenso di altri.
Parafrasando William Gibson, lo stigma del conflitto tra capitale e lavoro è presente nel pallone in ogni tempo e in ogni luogo, solo che non è distribuito in modo uniforme in essi.
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Così, in ogni tempo e in ogni luogo in cui si celebra la liturgia del calcio, esso è sempre, contemporaneamente, una merce e la logistica che ne organizza gli spostamenti, l'intelletto generale in cui si sublima l'individuo e l'individualismo senza limiti del soggetto imprenditore, l'immagine dell'eroe e lo spettacolo con cui il pubblico cerca di identificarsi in lui, la spirale infinta del debito e il flusso d'informazione che la rende possibile.
Palleggiando da un concetto all'altro, in un torello senza requie con alcuni dei più importanti interpreti del pensiero critico contemporaneo, Pisapia costruisce, con una scrittura potente ed evocativa, quella che, a tutti gli effetti, è una compiuta teoria marxista del gioco del calcio, l'anamnesi della realtà materiale che fa da base per provare a portare ancora una volta l'attacco al cuore del sistema.
Perché, come scrive Pisapia nel prologo di Fare gol non serve a niente, "è tempo di dare l'assalto al cielo. È tempo di scendere nelle strade, per riprenderci quello che non è mai stato nostro. Noi volgiamo tutto. Vogliamo anche il pallone."
Con la stessa rabbia innocente di un bambino che, quando qualcosa non gli sta bene, il pallone se lo porta via e il gioco finisce.
E, si sa, che i bambini non hanno mai torto.
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