"I fantasmi semiotici del modernismo alpino" su Just-Lit
C'è un legame, quanto stretto non so dirlo, che unisce tra loro il riscaldamento globale e i suoi effetti sull'ecosistema delle terre alte alla crisi dell'immaginario alpino. Di più, è proprio il riscaldamento globale e mettere in crisi questo immaginario, rivelando, come luminol, i molti limiti di questo artefatto culturale costruito nel corso degli ultimi 300 anni.
Come ci hanno insegnato i critici della fine della modernità, Mark Fisher davanti a tutti, crisi di questo tenore evocano spettri che finiscono per infestare il nostro presente, obliterando ogni possibilità di sviluppo del nostro orizzonte nel futuro.
La domanda dunque suona più o meno così: quando parliamo di immaginario alpino quali sono i fantasmi evocati dal tramonto della modernità?
Retrotopia, l'ultimo numero della rivista letteraria Just-Lit, mi ha dato l'opportunità di iniziare ad abbozzare una risposta in un saggio che tiene insieme un racconto iconico di William Gibson, un'opera videoludica di Hideo Kojima e la cronaca di un'escursione sul Lagorai di qualche anno fa.
Mi è capitato un paio di anni fa per il sentiero 376 che, dal bivacco Aldo Moro, scende verso il lago di Panaveggio lungo il lato sinistro della Val Ceremana, sulla catena montuosa del Lagorai. A manifestarlo per primo sono state le scritte. Grosse lettere rosse, tracciate con pennellate dritte sulle piatte rocce del pendio che dalla cima porta al bosco, indicavano a chi passava di lì che, nelle vicinanze, avrebbe potuto trovare l’ultima acqua prima della cima. Il cubo è apparso subito dopo. Ancorato con quattro cavi d’acciaio al terreno di un avvallamento erboso, emergeva poco più in basso, alla mia destra, in tutta la sua volumetria incongrua. Un profilo high-tech preciso, tagliente, moderno, futuristico che mi ha richiamato alla mente le architetture in cui è possibile imbattersi esplorando il mondo di Death Stranding.
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