(ri)velato #7 - una replica a Martha Canestrini
Mi segnalano che, nel numero del settimanale ff uscito lo scorso giovedì, una certa Martha Canestrini dedica a Il velo un'infastidita e sbrigativa critica, incorporata in una lettera dove la lettrice si lamenta anche della recensione che Gabriele di Luca ha dedicato al romanzo sullo stesso settimanale.
Lo confesso, l'intero impianto paratestuale che ho messo a punto insieme ai redattori della casa editrice è un'elaborata forma di clicbait, costruita apposta per triggherare una serie di automatismi tipici del dibattito sudtirolese.
Un'esca che Canestrini, ma non solo lei, ha ingoiato, amo compreso.
In sintesi, Canestrini mi rimprovera di essere un tipico sudtirolese di lingua italiana che, "tornato all'ovile dopo aver provato a vivere nella sua vera Patria", sfoga la sua frustrazione per non aver ricevuto dalla sua Provincia l'attenzione che pensa di meritare. Il tutto dando a intendere che io sia un nostalgico del regime fascista (sic).
Vorrei partire a rispondere a Canestrini da quest'ultima accusa, la più odiosa, perché in questa provincia, ma non solo qui, vige l'abitudine di chiamare fascista chiunque tranne che fascista lo è sul serio.
Chi mi conosce sa che l'antifascismo non è solo un mio valore, ma parte integrante della mia pratica politica.
Naturalmente Canestrini non è obbligata a conoscermi personalmente, dal momento che, con ottime probabilità, frequentiamo diversi milieu. Lei i salotti borghesi, io le strade.
Ma restiamo sul punto, perché anche non conoscendomi, a Canestrini sarebbe bastato leggere il libro - cosa che evidentemente non ha fatto, giudicandolo solo a partire dalla arrogante presunzione di sapere già tutto che caratterizza la persona della sua generazione - per imbattersi in un passaggio come questo:
La città trasfigurò. Divenne una ferita da cui sgorgava sangue nero, infetto. Uno squarcio nella carne di questa terra, attorno al quale i suoi abitanti definivano ancora le loro identità come simulacri etichettati da una semplice sfumatura del linguaggio cristallizzata dal tempo. Sprofondai nella diacronia e fu come rivivere la storia dell’Alto Adige. Vidi scorrere la vittoria da traditori nella Prima guerra mondiale, il colonialismo interno, l’italianizzazione forzata. Poi sentii brillare il tritolo, assaporai il sangue ferroso nella bocca dei torturati. Percepii l’umiliazione e la rabbia, lo sgomento e l’impotenza: un intero ciclo di sradicamento, repressione e vendetta che aveva mutato il carattere di quei luoghi, trasformandoli da ponte fra due culture nella linea di faglia lungo la quale esse erano venute a scontrarsi, con gran fragore di movimenti tellurici
O in un dialogo come quest'altro, in cui i personaggi commentano l'installazione apposta qualche anno fa sul fregio del palazzo degli uffici finanziari:
«Grazie» dissi rivolto a Manfred, che era ancora al mio fianco. «Se non fosse stato per te me lo sarei perso.»
«Ti piace l’installazione?»
«La trovo meravigliosa.»
Anch’io. Ha qualcosa di risolutivo.»
Non ero sicuro di aver capito cosa intendesse veramente Manfred con quell’aggettivo.
«In che senso?»
«Chi potrebbe mai accusare queste parole di sostenere una delle parti in causa?»
Aveva ragione. Nessuno avrebbe potuto elevarsi a vittima di quel concetto tanto elementare quanto potente: Nessuno ha il diritto di obbedire significava che non ci era concesso negare la nostra responsabilità nelle scelte che facevamo nella nostra vita. Era un messaggio che trasmetteva impegno e speranza.
Lascio al lettore giudicare se questi sono i pensieri di un nostalgico del regime fascista quale Canestrini cerca di farmi passare, mentre io passo rapidamente a farmi una sonora risata a proposito di quella che sarebbe la mia "vera Patria".
Esattamente, Canestrini, di quale patria vai cianciando? Napoli? Siena? Ovvero le due città in cui il protagonista del romanzo ha vissuto prima di tornare a Bolzano.
Posti che vengono definiti "una città splendida, ma [che] sa essere crudele" la prima e "un buco [di culo]" la seconda?
La domanda è, ovviamente, retorica, perché sappiamo entrambi che ti riferisci all'Italia.
Il punto è che, come mi è caro l'antifascismo, altrettanto importante per me è l'internazionalismo che, oggi, si esprime nella mia solidarietà attiva verso le organizzazioni antifasciste, femministe e anarchiche che, in Ucraina, resistono sul campo all'invasione imperialista voluta da Putin.
Non ho patria, Canestrini, perché la mia patria "è il mondo intero", come canta Pietro Gori nella sua Stornelli d'esilio.
Chiarito questo punto veniamo alla critica che, più di tutte, mi racconta della tua miseria umana e intellettuale, cara Canestrini.
Sul serio pensi che io misuri il successo in base al grado di attenzione che la Provincia rivolge alla mia scrittura?
Sei davvero così arida da pensare che davvero m'importi di più essere riconosciuto piuttosto che ricevere uno sguardo d'intesa dalla mia compagna, una risata dei mei figli, l'abbraccio di un amico, la stretta di mano di una persona che stimo?
Che vita vuota, triste e schifosa devi vivere, Canestrini, per pensare che io pianga se la mia scrittura non viene notata.
Sul serio, non me ne capacito, perché a quarant'anni compiuti la vita mi ha insegnato che il successo è nella qualità delle relazioni che stringi e non nella vanità delle copie vendute perché, vedi, non è per vendere che scrivo, ma per espormi al rischio dell'oltre, dell'altrove e del diverso.
Solo da questo rischio, infatti, può nascere quel nuovo che tu, Canestrini, hai smesso da tempo di tenere a battesimo.