Tavole ribelli
Questo articolo è apparso per la prima volta sul settimo numero di menelique, dedicato allo sport.
La notte del 25 agosto del 2020, sull’asfalto di Sherdan Road, una strada della cittadina di Kenosha, nel Wisconsin, lo skateboarder ventiseienne Anthony Huber giace esanime, con un proiettile in corpo.
A sparargli è stato Kyle Rittenhouse, un ragazzo di 17 anni originario di Antioch, Illinois.
Rittenhouse ha già sparato e ucciso quella notte. Pochi minuti prima, a cadere sotto i colpi del suo fucile Smith&Wesson M&P15 è stato un altro abitante di Kenosha, il senzatetto Joseph Rosenbaum.
Due giorni prima di quella notte, sempre a Kenosha, un agente di polizia, dopo averlo colpito con un taser, ha ucciso con quattro colpi di pistola alla schiena l’afroamericano Jacob Blake.
La violenza poliziesca è l’alito che attizza la brace della rabbia nera, le cui fiamme divorano gli Stati Uniti fin da quando, il 25 maggio del 2020, due mesi prima della notte di Kenosha, il buttafuori afroamericano George Floyd ha esalato il suo ultimo respiro, col collo costretto sotto il ginocchio dell’impassibile e beffardo agente di polizia Derek Chauvin.
È per difendere le proprietà degli onesti cittadini bianchi dalla rabbia dei manifestanti che Rittenhaus, cadetto e sostenitore della polizia, ha attraversato il confine dello Stato per pattugliare in armi le strade di Kenosha. Ed è per disarmarlo, dopo che ha sparato la prima volta, che Anthony Huber si getta contro di lui, armato solo del suo skateboard, colpendolo e ricevendo in cambio lo sparo che gli costerà la vita.
Nell’autunno del 2021, al termine di un dibattimento durato dal primo al diciannove di novembre, una giuria di venti persone, dopo aver ascoltato oltre trenta testimoni e visionato dozzine di video di quella notte, ha assolto Kyle Rittenhouse da tutti i capi d’imputazione per i quali era stato messo a processo.
First-degree reckless homicide; first-degree intentional homicide; attempted first-degree intentional homicide; first-degree recklessly endangering safety; possession of a dangerous weapon by a person under 18; failure to comply with an emergency order from state or local government.
Alle brave persone dello Stato del Wisconsin, nessuna di queste espressioni della legge è apparsa adeguata a definire le azioni di Kyle Rittenhouse. A chi si domanda cosa sarebbe successo se a compierle fosse stato un afroamericano resta l’impressione che quella sentenza abbia decretato chi, negli Stati Uniti, ha il diritto di esercitare la violenza senza tema di rappresaglie.
Ma non è questa la storia che ho intenzione di raccontare. Mi interessa di più parlare di uno skate, quello che Anthony Huber portava con sé la notte in cui è stato ucciso. Mi interessa perché non è la prima volta che uno skateboard fa la sua comparsa nelle immagini delle manifestazioni del movimento Black Lives Matter e negli scontri che spesso le accompagnano.
Ci sono video e fotografie in cui gli skater eseguono i loro trick sulle carcasse di auto della polizia bruciate o rovesciate durante le rivolte e altri in cui le tavole vengono usate come oggetti contundenti contro vetrine di negozi o cordoni di polizia.
Ma la presenza dello skate in quelle settimane non si limita a questi logici detournement della sua funzione d’uso.
In molte città, da San Francisco a Philadelphia fino a Toronto, gli skateboarder si organizzano per bloccare il traffico, dando vita a grandi critical mass per mostrare supporto alla lotta degli afroamericani contro la violenza e i soprusi della polizia.
Come nasce negli skateboarder, persone che la cultura popolare contemporanea ha dipinto spesso come ragazzini frivoli, disimpegnati ed edonisti, quest’urgenza di partecipazione e di coinvolgimento nel movimento che più di ogni altro ha provato a prefigurare un’immagine diversa della contemporaneità americana, con una forza e un magnetismo capaci di imporlo come un simbolo globale e globalizzato di lotta e resistenza alla violenza del potere?
Cosa lega ed avvicina alla lotta degli afroamericani contro la violenza e il razzismo sistemici chi si riconosce in una sottocultura il cui immaginario è stato costruito intorno a una lunga serie di stereotipi legati a un’identità maschile, bianca ed etereosessuale?
Per rispondere a questa domanda bisogna riportare lo skateboarding proprio alla sua natura di fenomeno sotto e contro culturale.
A dispetto dell’immaginario con cui lo skateboarding è stato raccontato e vissuto - che è, appunto, maschile, bianco ed eterosessuale - i valori che esso incarna - spiega Iain Borden in Skateboarding, Space and the city, studio accademico sullo skateboarding come fenomeno culturale urbano e contemporaneo - hanno la capacità di trascendere le barriere di classe, genere e razza.
Lo skate è infatti una pratica globale con alcune distinte variazioni regionali, che fanno sì che, nel corso della sua storia, le tensioni razziali al suo interno siano state pochissime, quasi nessuna.
Il suo essere una pratica sportiva non competitiva ha, da un lato, agito come antidoto alla solitudine della vita urbana contemporanea, permettendo a persone di diversa estrazione sociale, genere e razza di aggregarsi intorno a una passione comune e, dall’altro, di fare in modo che le diverse esperienze di vita incarnate dai singoli skater diventassero un patrimonio condiviso all’interno della comunità che essi andavano formando, frequentando gli stessi luoghi delle città in cui vivevano.
Questa circolazione di esperienze tuttavia non si limita alla conoscenza reciproca, ma assume un tratto più incarnato e performativo. Lo skateboarding è infatti una pratica di strada, che porta le persone, in particolar modo gli adolescenti e i teenager, a confrontarsi con uno spazio in cui valgono regole diverse da quelle dei luoghi - la casa, la scuola, la squadra sportiva organizzata e/o istituzionalizzata - a cui per la loro età sono stati abituati a frequentare.
Chi pratica lo skate in strada viene perciò a contatto sia con tutta una serie di figure marginali che la strada la vivono e, a volte, la abitano: il tossico, il barbone, la prostituta, il delinquente; sia con tutta una serie di figure che in strada incarnano l’autorità in tutte le sue forme: dal proprietario (di una casa, un negozio, un’attività) alla guardia giurata, fino al poliziotto.
Se nel caso delle figure marginali l’incontro può avvenire tanto in forme conflittuali, come lo scontro col piccolo criminale che prova a derubare lo skater dei suoi averi, quanto in forme negoziali o complici, come può essere il rapporto con uno spacciatore, una prostituta o un senza tetto; nel secondo caso non esiste altra modalità di relazione che non passi attraverso il conflitto.
Lo skateboarding è infatti una cultura i cui membri resistono attivamente al costante tentativo di istituzionalizzare e integrare l’adolescente nei riti del commercio e del consumo che la sua vita parallela come skater rifiuta o risemantizza secondo regole proprie.
Un rifiuto che la cultura popolare americana ha trattato come una vera e propria dichiarazione di guerra fin da quando, negli anni ‘50, l’adolescente ha cominciato a essere prodotto come soggetto di consumo e segmento di marketing con una propria e indipendente visione del mondo.
Da Rebel without a cause agli hippie, dal rock’n’roll agli skateboarder, la cultura americana ha visto negli adolescenti uno dei tanti nemici da combattere dentro e fuori i suoi confini per mantenere intatto il suo destino manifesto di dominio sul mondo. Un conflitto che s’incarna nel topos del “confronto con l’autorità”, tipico della produzione visiva dello skateboarding, in cui spesso, all’aggressività delle figure autoritarie, lo skater risponde comportandosi come una sorta di trickster che raggira il nemico grazie alla sua furbizia.
Le forme in cui questo scontro viene riassorbito però non spogliano l’autorità della sua violenza.
Dunque, seppur a un diverso grado di qualità e intensità, anche gli skateboarder vengono repressi come vengono repressi gli afroamericani; anche loro sono sottoposti all’arbitrio, all’abuso e alla violenza poliziesca che li tratta come nemici dell’ideologia che vuole l’America doversi fare di nuovo grande.
È in questa comune esperienza di violenza e repressione che va dunque collocato e letto l’impegno degli skateboarder nella lotta del movimento Black Lives Matter; un impegno che è tanto la rivendicazione di un sentimento di fratellanza che travalica le barriere di classe, genere e razza, quanto la presa di coscienza della natura politica insita nel gesto di scegliere di far parte di una sotto e contro cultura di strada come lo skateboarding.