Contro il perfezionismo

Una sera di qualche settimana fa, prima di addormentarmi, ero impegnato in un esercizio di visualizzazione.

Erano passate solo poche ore da quando avevo consegnato un grosso progetto di cui ero responsabile e che, a causa una serie di difficoltà ed errori di gestione, s'era protratto più a lungo del previsto.

Nel teatro che avevo allestito nella mia mente provavo a immaginare il debriefing che, di lì a qualche settimana, avrei sostenuto con il mio committente.

Il teatro mentale è una tecnica che consiste nel ricostruire in anticipo una situazione che ci si troverà a vivere, immaginando in quali modi affrontarla e con quali parole. Ripetuta diverse volte, questa rapresentazione mentale permette di affinare il proprio discorso fino a renderlo il più efficace possibile.

Negli anni ho usato spesso questo esercizio di visualizzazione, che mi è stato utile per non farmi trovare impreparato durante una presentazione, un colloquio di lavoro o, appunto, il debriefing di un progetto..

A un certo punto, nella scena che stavo ricostruendo nella mia mente, il mio personaggio si è rivolto al suo interlocutore dicendo: "[...] come sai, io sono un perfezionista". Subito però s'è corretto: "Scusami," ha detto "non è così, non sono un perfezionista. Non mi piace nemmeno definirmi perfezionista, perché sono conosapevole che ogni output possiede un certo grado di entropia. Il mio scopo non è eliminarla, è ridurla al minimo".

La forza di quel pensiero mi ha colpito come uno schiaffo.

Nel corso della mia carriera ho incontrato spesso colleghi e collaboratori che amavano definirsi perfezionisti. E non credo di essere il solo. Sono molte le persone che trattano la propria, manicale attenzione al dettaglio come un punto di forza del proprio modo di lavorare.

Ma l'accezione del termine "perfezionista", così ci ricorda il dizionario Treccani, è tutto tranne che positiva. Esso indica chi, "per tendenza nevrotica o per naturale insoddisfazione, tende in ogni sua attività a una perfezione ideale irraggiungibile".

Il perfezionista è dunque chi dimentica l'antico e fondamentale adagio dei geografi: la mappa non è il territorio. Ovvero che per quanto sia dettagliata, un'astrazione non può mai ricostruire del tutto la realtà. Rispetto alla prima, la seconda presenta sempre delle differenze con cui è necessario confrontarsi.

Riformulato dunque in termini di project management, il vecchio adagio dei geografi potrebbe suonare più o meno così: il progetto non corrisponde al suo output, tantomeno al percorso necessario per ragiungerlo.

Il che equivale a dire che, per quanto dettagliati possano essere, nel momento in cui essa vengono eseguite, una strategia o un progetto si confrontano con situazioni concrete che non solo non possono essere previste, ma impongono loro di adattarsi alle asperità che si incontrano sul terreno.

In questo scenario, la pretesa di perfezione, irraggiungibile per definizione, ha come unico effetto quello di ostacolare lo svolgimento del lavoro, esigendo di rispettare un'astrazione che si dimostra incapace di reggere il confronto con la realtà del territorio.

Quando si trova invischiato in una situazione del genere, solo una chiara visione d'insieme del lavoro consente al project manager di far muovere il lavoro nelle direzione desiderata, trovando di volta in volta il modo più efficace per lasciarsi alle spalle gli ostacoli che incontra.

Visione, flessibilità e rapidità di pensiero sono gli strumenti a sua disposizione per evitare che uno sterile perfezionismo lo conduca in un vicolo cieco, dove l'astrazione prevale sulla realtà concreta, bloccando il percorso necessario per portare il progetto a compimento.

Così come il personaggio che interpretavo nel teatro mentale, il project manager deve essere consapevole che l'entropia è una componente sistemica che non può essere eliminata, solo gestita, e che lo suo scopo del suo lavoro è di minimizzarne il più possibile gli effetti.