"Fenomenologia dell’operaio digitale ai tempi dello smartworking" su Commonware
Per gli intellettuali distopici l'adozione improvvisa e di massa del lavoro da remoto durante il primo lockdown era uno dei segni della digitalizzazione forzata che la pandemia ha accelerato.
Eppure, mesi fa, il fronte padronale si è compattato contro lo smartworking e da allora porta avanti un'offensiva senza quartiere per smantellarne ogni presupposto.
Come spesso accade, quando si mettono in campo strumenti materialisti di analisi, la realtà si mostra più complessa e sfumata di quanto appaia nelle dicotomie perfette della teoria critica, che ha pure ampi spunti di ragione e verità nelle sue riflessioni.
In questa autoinchiesta - che è il primo passo verso una resa dei conti con i miei ultimi dieci anni di vita professionale - ho provato a capire perché il lavoro a distanza spaventa così tanto i padroni da farli diventare idrofobi.
Se fino a dieci o quindici anni fa una sola persona poteva efficacemente gestire l’intera filiera di produzione di un sito web, dall’hosting al design delle interfacce, oggi la complessità dell’infrastruttura rende necessaria una maggiore divisione del lavoro in comparti ben definiti (sviluppo, copywriting, ottimizzazione SEO, UX/UI design, gestione del server, ecc.). Con la divisione del lavoro si afferma anche un modo di produrre che avvicina alla realtà industriale quella che un tempo era un’attività dalle caratteristiche quasi artigianali. Ciò avviene perché all’aumentare della complessità del panorama tecnologico, che avviene per effetto delle piattaforme e della loro capacità di determinare gli standard di sviluppo delle tecnologie digitali, l’estrazione di plusvalore necessaria a chi detiene i mezzi di produzione obbliga a scalare verso l’alto la quantità di prodotti realizzati, diminuendo i tempi di realizzazione e standardizzando il risultato finale.