"La prima volta dello skate alle Olimpiadi" su Ultimo Uomo
In occasione del debutto olimpico dello skateboarding, L'Ultimo Uomo mi ha invitato a scrivere una riflessione sul significato di questo evento, per una disciplina la cui componente sottoculturale è preponderante rispetto a quella puramente sportiva.
Saper affrontare il cambiamento, senza snaturare ciò che ha contribuito a renderlo una delle attività sportive più affascinanti, accessibili e praticate al mondo. È esattamente questa la sfida che la scelta olimpica pone allo skateboarding come cultura. Perché sono esattamente la libertà, la sfida alle convenzioni e la possibilità assoluta di espressione individuale che hanno reso quel fenomeno globale così amato ed enorme da renderlo impossibile da ignorare. Sacrificarle sull’altare della rispettabilità olimpica e della competizione a tutti i costi sarebbe una perdita di innocenza che non sarebbe compensate dall’enorme occasione di visibilità che le Olimpiadi comportano. Lo skate, però, questa dialettica tra identità sottoculturale e sportiva, tra popolarità e autismo, tra commercializzazione e ribellione, la vive fin dalle sue origini; non a caso è nato negli Stati Uniti, un luogo dove ogni cosa può diventare, con impressionante rapidità, un business. Che questo adolescente riottoso abbia, nonostante tutto, la maturità per non perdere la sua innocenza è qualcosa su cui sono pronti a scommettere tutte le persone che lo amano. Dopotutto è solo dandogli autonomia e fiducia, che un adolescente può imparare a diventare adulto.