Spore #6 - Fantasmi semotici
In un suo celebre racconto, Il continuum di Gernsback, William Gibson chiama le "fantasmi semiotici" le apparizioni che tormentano il protagonista, un fotografo incaricato dalla storica dell'arte Dialta Downes di realizzare un servizio fotografico sullo stile Art déco americano.
Questi "fantasmi semiotici", dice Gibson, sono "frammenti di un immaginario culturale che si è separato e ha acquistato vita autonoma" e non si incontrano solo nei suoi racconti.
Quest'estate ne ho visto uno anche io.
Scendevo, da solo, lungo il sentiero 376 che, dal bivacco Aldo Moro, sul Lagorai, porta in basso, verso il Lago di Paneveggio, costeggiando il lato sinistro della Val Ceremana.
Sono circa un migliaio di metri di dislivello, lungo cui il sentiero scende praticamente in verticale, tagliando prima i baranci per poi infilarsi nel bosco, a fianco della cima Bragarolo, e precipitare a valle con una serie di tratti, brevi e netti, che zigzagano tra gli alberi.
Nuvole grigie correvano rapide sulla mia testa, coprendo il sole che, a quell'ora, era quasi mezzogiorno, restava perfettamente alle mie spalle.
Prima di scorgerlo mi accorsi delle scritte.
Grosse lettere rosse, tracciate con pennellate acute e diritte sulle piatte rocce del piano inclinato che stavo scendendo, indicavano a chi passava di lì quanto segue: "ultima acqua prima della cima". Una freccia puntava verso la sorgente.
È stato allora che l'ho visto.
Più in basso, alla mia destra, ancorato con quattro cavi in un avvallamento di erba verde, un cubo emergeva con tutta la sua volumetria incongrua.
Bianchissimo, svettava all'interno del paesaggio. La sua pulizia, il suo essere nuovo, immediatamente identificabile come moderno o, addirittura, futuristico, contrastava con la vetustà di quel luogo tutto.
Mi sono chiesto chi lo avesse installato lì e a che scopo. Mentre scendevo infestava i miei pensieri. Qualcosa mi diceva che lo avevo già visto, che sapevo la risposta, ma la mia mente si rifiutava di collaborare.
Per un attimo ho pensato di avvicinarmi, per studiare più da vicino quell'apparizione e rendermi conto se fosse vera o, come mi pareva, un'immagine che stavo proiettando dall'immaginario nella realtà.
Ho preferito non farlo. Ho tirato dritto.
Il cubo bianco, alla fine, è scomparso alle mie spalle, inghiottito dal paesaggio. Di tanto in tanto mi chiedo se sia ancora lì.