Solo un altro post su Game of Thrones - recap della sesta stagione
Se l’universo di Game of Thrones non è altro che una pangea narrativa, la stagione appena trascorsa rappresenta il culmine della tettonica a placche che ne sta ridisegnando i confini. Si vocifera da tempo che la sesta stagione sarà di fatto la penultima dello show. Secondo i rumors, i produttori hanno deciso di dividere in due parti il finale della serie, così come era già successo a Mad Men. La settima e l’ottava stagione dovrebbero perciò essere due miniserie, a cui toccherà il compito di chiudere tutti gli archi narrativi della saga. Per essere certi di quale sarà il destino di Westeros e dei Sette Regni dovremo perciò aspettare ancora un bel po’.
Eppure, come in una delle peregrinazioni spazio temporali di Brandon Stark, la sesta stagione sembra mostrarci in filigrana quale potrà essere la fisionomia del mondo che verrà. Perché - e questa stagione lo ha reso sempre più evidente - Game of Thrones non è soltanto una meditazione sulla ricerca del potere, ma una vera e propria teoria del cambiamento.
Spoiler Line
Gentile lettore questo recap è pieno zeppo di spoiler della sesta stagione. Perciò se ti manca ancora qualche puntata o non ci sei ancora arrivato fermati qui, salva questo post tra i preferiti e torna a leggerlo quando sarai in pari. What is dead may never die...
Staroe i Novoe o fondamenti di una teoria del potere
Partiamo dal principio. La stagione inizia tracciando un parallelo tra quanto succede a Mereen e quanto accade a King’s Landing. All’ombra della grande piramide, la rivolta dei figli dell’Arpia ha allontanato Daenarys lasciando una città squassata da tensioni interne nelle mani del quartetto composto da Tyrion, Varys, Missandei e Verme Grigio che insieme costituiscono l’equivalente del concilio ristretto della capitale dei Sette Regni. Ai piedi delle mura della Rocca Rossa, invece, il culto militante ha di fatto preso il controllo della città, esautorando il concilio ristretto controllato fino ad allora da Cersei. Entrambe le città vivono dunque un vuoto di potere. La differenza è il modo in cui i due concili ristretti affrontano questa vacanza.
Se Tyrion e Varys possono permettersi di camminare per le strade di Mereen senza doversi preoccupare troppo, i membri del concilio ristretto di Approdo del Re restano confinati tra le mura del palazzo, più impegnati a perseguire il proprio interesse ai danni l’uno dell’altro che non a capire come governare la crisi che attraversa la città. L’esito di questo atteggiamento è il capolavoro politico dell’Alto Passero che, di fronte alla città riunita per assistere al cammino della vergogna di Maergery, instaura il cesaropapismo e toglie al concilio ristretto anche l’ulitmo birciolo di potere che gli era rimasto.
Al di là del mare Tyrion persuade i suoi a scegliere la diplomazia e stipula un accordo coi Buoni Padroni di Astapor. Il nano ottiene la pace in città, a cui segue un periodo di prosperita, e riesce a imporre ai suoi avversari il programma “fine della schiavitù in sette anni”. Sarebbe un buon accordo, se non fosse che agli schiavisti il concetto di “fedeltà alla parola data” risulta poco comprensibile. Ma l’idea di rinunciare alle proprie tradizioni risulta indigesta ai mercanti di uomini, che allestiscono una flotta e assediano la città dal mare. Una scelta avventata, quando dall’altra parte c’è una regina, pardon una Khaleesi, che può contare su tre draghi e un’orda di Dothraki al seguito. Il ritorno di Daenarys dall’esilio mette fine alla schiavitù ben prima dei sette anni negoziati da Tyrion, consegnadole il controllo totale sul Sud.
I paralleli tra linee narrative non si esauriscono qui. L’intera stagione sembra essere costruita su continui rimandi tra diverse situazioni che si sviluppano nelle varie zone del mondo raccontato dalla serie. A nord, ad esempio, la resurrezione di Jon Snow e l’arrivo di Sansa al Castello Nero danno vita a un terzo concilio ristretto. Oltre ai due fratelli, ne fanno parte Ser Davos Seaworth, Melisandre e, più defilato, Tormund. L’esito di questo sodalizio è la vittoria nella Battaglia dei Bastardi e la riconquista del Nord da parte degli Stark, con l’aiuto determinante della cavalleria della Valle.
L’asse del potere si è dunque spostato dal centro (Approdo del Re) alla periferia (Mereen e Grande Inverno). La fine della stagione sembra aver decretato la fine di un ciclo geopolitico e l’apertura su un nuovo assetto del mondo di Game of Thrones. Tra il vecchio mondo e quello nuovo che si sta delineando, la differenza è che in quest’ultimo il potere sembra aver smesso di dover essere appannaggio esclusivo di una persona. A dominare l’orizzonte politico è una teoria del potere basata sulla sua condivisione. Laddove il potere viene condiviso (Mereen) si prendono le decisioni più vantaggiose, mentre quando si sceglie di non farlo (ad Approdo del Re, ma anche a Grande Inverno) il rischio è quello dell’annientamento totale. Gestire il potere, sembrano dirci gli sceneggiatori, è una questione di delega.
Prove di matriarcato
Non sono stato l’unico a notarlo, ma nella sesta stagione di Game of Thrones abbiamo assistito a una netta affermazione del genere femminile, di cui Daenarys e Sansa hanno rappresentato l’alpha e l’omega, con Cersei nel ruolo di “lato oscuro della forza”.
La prima si prepara a invadere Westeros grazie all’accordo stretto con Yara Greyjoy, donna dalla tempra notevole in favore della quale il fratello Theon ha abbandonato le sue pretese al trono della Isole di Ferro. Mentre la seconda non solo ha riportato i vessilli degli Stark a sventolare sui bastioni di Grande Inverno, ma lo ha fatto dimostrando lungimiranza, crudeltà e opportunismo. Doti invidiabili per chiunque aspiri ad avere un ruolo di spicco nella politica dei Sette Regni. Purtroppo solo la presenza ingombrante del fratellastro Jon Snow, acclamato a gran voce nuovo “King in the North” dai suoi vassalli, le ha impedito di completare la sua ascensione verso il potere.
L’avvento del matriarcato è così la seconda grande corrente di cambiamento che ha attraversato l’universo narrativo della serie durante questa stagione. Dal vecchio al nuovo mondo, il potere non è solo passato dal centro alla periferia, ma sembra star transitando anche dalle mani degli uomini a quelle delle donne. E a cambiare, in questa transizione, è anche il modo in cui il potere viene ottenuto e tramandato.
Se il mondo all’inizio della serie metteva in scena un potere legato al sangue e alla dinastia, dove le lotte per il suo controllo passavano innanzitutto per la verifica e la messa alla prova delle genealogie, oggi il potere deriva innanzitutto dall’esperienza e dalla sofferenza.
Tanto Sansa quanto Daenarys cominciano il loro percorso venendo vendute - la prima metaforicamente, la seconda letteralmente - a un rappresentante del potere maschile. Solo a costo di grandi difficoltà e sofferenze finiscono per affrancarsi dalla loro condizione. Inoltre, mentre avanzano lungo il loro percorso è il concetto stesso di potere maschile che finisce per sgretolarsi e bruciare, insieme ai suoi rappresentanti. Se si esclude il nuovo sovrano di Grande Inverno, il cui sguardo però sembra guardare più oltre la Barriera che non a sud verso il Trono di Spade, alla fine della sesta stagione non c’è alcun maschio che occupi una posizione di potere rilevante nella geopolitica dello show. Da Jamie Lannister a Jon Snow, passando per Jorah Mormont e Sandor Clegane, quelli che un tempo erano uomini in grado di far tremare il mondo oggi non sono altro che una banda di emarginati, piegati dalla vita. E se si fa eccezione per gli Stark, tutte le casate più importanti e potenti di Westeros sono comandate da donne.
In questo schema non resta che collocare Cersei, la quale, messa alle strette dall’Alto Passero e ormai priva di qualsiasi potere se non quello della violenza, sceglie la soluzione “muoia Sansone con tutti i filistei”. La distruzione del tempio di Baelor ottiene l’effetto sperato, ovvero ridurre a ground zero il Credo Militante. Cersei può così sedere sul Trono di Spade, ma il costo della vittoria è altissimo. Il figlio Tommen si suicida gettandosi da una finestra, e lo sguardo che il fratello/amante Jamie le rivolge al suo ritorno da Delta delle Acque fa pensare che qualcosa, nel legame tra i due, si sia rotto. Inoltre la legittimità con cui la Regina Nera siede sul trono è puramente formale e con l’armata della Distruttrice di Catene che veleggia verso il continente governare con il solo ausilio della paura non sembra la più solida delle prospettive politiche.
Gobble gobble uno di noi
Una terza corrente di cambiamento racconta la scomparsa della magia dal mondo. Si tratta di una dinamica che è già in atto fin dalla prima puntata della prima stagione di Game of Thrones. Quello raccontato nella serie è un mondo dove la magia è già relegata ai confini e gli eventi narrati non fanno altro che renderla sempre più marginale.
Nella sesta stagione si assiste infatti all’estinzione di due delle razze più antiche del continente: i Figli della Foresta, sterminati dall’esercito dell’Re della Notta durante l’assalto all’albero del Corvo dai Tre Occhi; e i giganti, il cui ultimo superstite, Wun Wun, cade eroicamente dopo aver sfondato il portone di Grande Inverno durante la Battaglia dei Bastardi. Di quel mondo magico ormai sull’orlo dell’estinzione non restano altro che poche, mortalmente pericolose vestigia. Se si eccettua il neo druido Brandon Stark, non restano altro che tre draghi sputafuoco a Sud e un esercito di Estranei sempre più numeroso che preme sui confini settentrionali di Westeros.
Che l’inverno stia arrivando ce lo sentiamo ripetere praticamente dal primo giorno, e finalmente è arrivato ufficialmente. Jon Snow e chi come lui ha già combattuto contro il Re della Notte e le sue armata non perde occasione avvertire chi gli sta intorno che il pericolo è imminente. Al punto in cui siamo arrivati, l’inverno tanto temuto è più tangibile che mani. Quando Berrick Dondarrion e Thoros di Myr s’imbattono in un redivido Sandor Clegane e gli propongo di unirsi a loro per recarsi insieme oltre la Barriera e opporsi al pericolo, è l’aria stessa intorno a loro che si fa più fredda, come se, al di fuori della macchia d’alberi sotto alla quale i membri della Fratellanza Senza Vessilli hanno deciso di riposarsi, il nevischio avesse preso a cadere dal cielo, in quella che è forse una delle tre migliori scene di tutta la stagione. Dove il regista usa l’elemento atmosferico per caricare di senso il dialogo e aumentare la sensazione di minaccia. In un mondo dove gli assi del potere e la sua stessa essenza si sono modificate in modo radicale, sembra sia questo pericolo a rappresentare oggi il maggior interesse per l’umanità.
E se il potere oggi appare scorrere verso le donne, questa guerra pare essere quasi esclusivamente un’affare da maschi. Invischiati nella lotta contro gli estranei ci sono sicuramente Brandon Stark e suo zio Benjen, il redivivo Jon Snow coi suoi compagni e la Compagnia Senza Vessilli. Un bel gruppetto di musi che condividono una natura freak e boarderline. Fermatevi a pensarci. Brandon è ormai l’unico sciamano rimasto ed è capace di muoversi tra le dimensioni dello spazio e del tempo. Lo zio Benjen è sopravvissuto misteriosamente per anni in territorio ostile e questa circostanza ha di certo un peso. Lo stesso che ha per Tormund, anch’esso ormai uno degli ultimi rappresentanti del Popolo Libero. Mentre Jon Snow e il suo omologo Berrick Dondarrion sono entrambi redivivi grazie alla volontà del Dio della Luce. Pure Sandor Clegane è, a suo modo, un redivivo, dato che a suo dire l’unica cosa che ancora lo tiene in vita è l’odio che cova dentro di sé. Verso l’ultima battaglia, quella decisiva per la sopravvivenza dell’umanità, non si sta dirigendo un esercito ben armato e perfettamente addestrato, ma una banda di fenomeni da baraccone, accomunati dalle cicatrici di una vita lunga e sanguinosa.
Chi manca?
In quest’affresco manca all’appello ancora qualche personaggio di un certo peso. Di Arya Stark si sa che è tornata sul continente e ha iniziato a spuntare una serie di nomi dalla sua lista. Di Jorah Mormont si sono invece perse le tracce ma si può star certi che è impegnato nella sua quest e con ogni probabilità lo rivedremo in futuro. Così come di Podrick e Brienne, che abbiamo visto per l’ultima volta mentre scambiava languidi saluti con lo Sterminatore di Re da una barchetta a remi. Melisandre, esiliata, si sta dirigendo a Sud da dove spirano venti di guerra. Gilly e Sam sono infine giunti alla Cittadella, senza riuscire con ciò a invertire il trend che vuole la ragazza e il suo pargolo ospiti indesiderati praticamente ovunque. Vanno menzionati qui per completezza anche Sansa e Ditocorto. Con Jon Snow nominato a furor di popolo nuovo il “King in the North”, si sono creati i presupposti perché il rapporto tra i due si possa approfondire ancora di più.
Per sapere se il loro percorso li porterà o meno alla distruzione dovremmo però aspettare un altro anno. E un altro ancora per vedersi chiudere tutte le line narrative di quella che è una delle opere televisive più complesse di cui io abbia memoria. Non solo per la lunghezza e la profondità con cui vengono raccontati i personaggi, ma anche per il modo in cui vengono gestite le relazioni che li legano. Queste strutture non sono mai prive di un equivalente a cui essere confrontate. Come se ogni scelta che i personaggi compiono avesse un doppio speculare in grado di mostrarci cosa sarebbe successo se avessero preso la decisione opposta.
I due triangoli che si configurano alla fine della sesta stagione - Cersei-Jamie-Brienne e Jon-Sansa-Ditocorto - si caricano proprio di questa tensione. Per la prima volta nella sua vita, Jamie Lannister sa che al mondo non ci sono solo lui e la sorella. Un cavaliere valoroso e meritevole d’onore, Brienne, ha scrutato nella sua anima. Unica al mondo, ha visto il buono che c’è in lui. Sedere al fianco della donna che ha sacrificato tutto ciò che c’è di sacro sull’altare del potere potrebbe essere troppo difficile per un uomo che ha pagato cara l’ambizione e sembra sempre più stanco di guerre e morti. Dall’altra parte, Sansa si sta rendendo conto che per lei potrebbe non esserci altro che solitudine nella vita. La stessa solitudine che Ditocorto ha provato per tutta la sua esistenza. Per la rampolla del nord sembra non esserci altro al mondo che l’arrampicatore sociale e il suo sogno di conquista. Un sogno a cui Jon Snow rappresenta un ostacolo.
È in questi continui giochi di rimandi e relazioni tra personaggi e situazioni, di cui questo è solo uno dei tanti esempi, che si realizza quella compresenza di tempi, dimensioni e possibilità parallele che trasforma Game of Thrones nell’essenza stessa del cliffhanger come attrezzo narrativo. Un’epopea meravigliosa che non riusciamo a smettere di vedere e vorremmo continuasse in eterno.