Produzione e condivisione nei media digitali: recensione a L'archivio in rete
Che cos'è il passato nella cultura digitale? Quella che ho appena fatto potrebbe sembrare una domanda trabocchetto, se non fosse che la rapidissima evoluzione della tecnologia sembra mettere in discussione un concetto che abbiamo sempre dato per scontato come, appunto, quello di passato.
Probabilmente, è con la consapevolezza di questo rischio che, in un post su Medium, Mario Tedeschini Lalli riflette sulla necessità di una re-invenzione del passato nel mondo digitale contemporaneo.
Tedeschini Lalli è senza dubbio uno dei pionieri del giornalismo digitale made in Italy eppure, come nota lui stesso, di gran parte dei progetti a cui ha lavorato nell'ultima fase della sua carriera non è rimasta alcuna traccia.
Una situazione paradossale, se si considera che una parte considerevole dell'infrastruttura fisica che permette alla rete di funzionare è costituita da enormi periferiche di memoria, che fanno della rete il più grande ed esteso archivio che la storia abbia mai conosciuto.
L'idea che la rete sia un archivio è al centro delle riflessioni di Angela Maiello, contenute in L'archivio in rete un breve ebook uscito di recente per i tipi (digitali) di goWare.
Di cosa parliamo, quando parliamo di archivio?
Per definire il concetto di archivio, l'autrice sceglie di organizzare il proprio discorso intorno alle riflessioni di due dei protagonisti del pensiero francese del novecento: Michel Foucault e Jacques Derrida.
Il primo tratta il concetto nell'opera intitolata L'archeologia del sapere, un testo nel quale il filosofo mette le basi per l'ambizioso tentativo di tracciare le linee guida per una metodologia di analisi della storia della cultura che riesca nell'intento di superare la tradizionale visione lineare e continuista.
In quest'ottica
archivio (l'archive) è il nome che Foucault dà al sistema che regola l'insorgenza dei singoli enunciati: l'archivio è la legge di ciò che può essere detto. [...] L'archivio predispone la possibilità per la formazione degli enunciati o, al contrario, ne impedisce l'insorgenza, determinando in questo modo i sistemi di discorsività.
Di Derrida interessano invece le riflessioni contenute nel saggio conosciuto col titolo di Mal d'archivio, ovvero la sistematizzazione di una relazione tenuta a Londra dal filosofo e dedicata all'analisi di un celebre testo freudiano del 1920: Al di là del principio di piacere.
Per Derrida
l'archivio non corrisponde mai al lavoro di ricordo spontaneo o interno alla coscienza del vivente, ma anzi ha luogo proprio nella debolezza originaria e strutturale di tale lavoro. Esso non è riducibile ad un'attività spontanea, diremo naturale, del soggetto, ma ha sempre bisogno di una tecnica e di un'esteriorità.
Che aspetto hanno perciò, alla luce di queste coordinate, i nuovi media digitali? L'autrice azzarda una definizione che suona più o meno come segue:
i nuovi media non sono meri strumenti della comunicazione, ma dispositivi d'archiviazione che in quanto tali producono delle trasformazioni significative nelle modalità attraverso cui l'uomo non soltanto organizza il proprio sapere, ma produce forme di esperienza e di elaborazione.
Il carattere produttivo dei media digitali
L'aspetto più interessante della definizione di nuovi media digitali tentata da Maiello è contenuto probabilmente nelle implicazioni del verbo "produrre", che l'autrice usa per indicare il modo in cui funzionano questi particolari dispositivi di archiviazione.
Il carattere produttivo è infatti uno degli aspetti più interessanti dei media digitali, il cui autentico potenziale rivoluzionario non risiede tanto nella capacità di mettere in comunicazione le persone su assi orizzontali - possibilità che alcuni media hanno offerto e offrono da almeno 2000 anni, come mostra Tom Standage in I tweet di Cicerone - quanto nella capacità di abilitare a costi bassissimi le capacità produttive degli utenti, dando vita a quella che viene definita user generated culture.
Questo carattere produttivo è sottolineato anche dal paradigma aptico con cui sono costruite le interfacce con cui utilizziamo i principali dispositivi digitali. L'aptico è infatti ciò che
contraddistingue il lavoro dell'artigiano o dell'artista, che trovano nel rapporto manuale e sinestetico con la materia il principio, il cominciamento e la regole della propria creatività e inventiva. [...] Dagli smartphone ai tablet, dai video giochi agli schermi interattivi, il tatto è diventato il senso che ci permette du conoscere, esplorare, manipolare giocare e trasformare il mondo che ci viene restituito tramite bit.
Ma cosa produciamo esattamente quando utilizziamo i media digitali? La risposta più immediata è una: contenuti. Ovvero testi, foto, video, audio e qualsiasi altra forma di sintesi di queste (e altre) sostanze dell'espressione. Non è un caso che content sia una delle parole più usate (e abusate) da chi si occupa di cultura e media digitali.
Almeno tanto quanto viene usata la parola data, ovvero quei dati (e metadati) che rappresentano un ulteriore prodotto delle nostre esistenze digitali. Quasi una forma di produzione secondaria, al quadrato, che accompagna la produzione di contenuti.
È dall'interazione, dalla moltiplicazione di questi prodotti della nostra vita digitale che ne nasce un terzo, forse il più importante. Al terzo livello della nostra produzione digitale c'è infatti l'identità.
Esponendoci in rete diventiamo identificabili, grazie a dati e metadati, e allo stesso tempo definiamo la nostra identità attraverso i contenuti che condividiamo ogni giorno sulle nostre piattaforme.
Condivisione, la forma dell'archivio in rete
Condivisione è un'altra parola chiave della cultura digitale. Come abbiamo visto, essa ci abilita a produrre la nostra identità attraverso la produzione di dati e contenuti. Ma questa identità acquisisce senso sulla scena sociale solo quando viene condivisa, ovvero resa fruibile e ricercabile da ogni altro nodo (utente) che fruisce la rete.
Condivisione, negli ambienti digitali che viviamo quotidianamente, significa in realtà riproduzione. Ogni volta che condividiamo un contenuto, infatti, non facciamo altro che crearne una copia (o la traccia di una copia) moltiplicandone così la presenza e contribuendo a disseminarlo.
La sopravvivenza del passato si lega così a doppio filo a questo gesto. In uno spazio in rapida e costante evoluzione come quello della rete, la copia e la distribuzione è ciò che permette la conservazione del passato.
È esattamente questa la lezione più importante che ci lascia questo libro, ovvero che
archiviare oggi significa essenzialmente condividere.
Ciò significa che il gesto dell'archiviazione non è più limitato alla conservazione e alla catalogazione della tracce di produzione antropologica, ma è diventato una forma di circolazione e distribuzione della nostra produzione disseminata e continua.
Un atto creativo a tutti gli effetti, in grado di "rintracciare, costruire e restituire un senso".
ps. l'ebook di cui si parla in questo articolo mi è stato inviato dall'autrice, con cui collaboro nella redazione di Lavoro Culturale.