Stupidi giocattoli di legno, un anno dopo
È una sera di fine maggio. Mentre il sole tramonta dietro alle colline marchigiane, la brezza che si alza dal mare porta refrigerio dopo una giornata caldissima. Srotolo le maniche della camicia, mentre la pelle s’increspa a contatto con l’aria che spira fresca da est.
Da qualche minuto ho finito la presentazione di Stupidi Giocattoli di Legno nella sala principale dello spazio autogestito Arvultùra — una piccola cascina che resiste in modo commovente al cemento dei centri commerciali.
Al di là della cintura di palazzi che ci circonda c’è Senigallia. Per me, in questo istante, è il centro del mondo.
È l’ultima tappa del present&destroy tour. Forse quella che è andata meglio. probabilmente quella in cui sono stato accolto con più calore.
Metto una mano nello zaino, che la mia ansia congenita mi fa tenere sempre a portata di sguardo, e d’istinto cerco la ragione di tutto questo: quel piccolo parallelepipedo di carta grazie al quale sono qui.
Lo tiro fuori e lo soppeso. Sembra diverso, più pesante della prima volta che me lo sono trovato tra le mani, molti mesi prima.
Vi è mai capitato di lasciare un libro sul davanzale della finestra in una notte d’estate o abbandonarlo per qualche ora sul telo da spiaggia umido in riva al mare?
Se vi è successo, allora sapete che ci sono buone possibilità che, al vostro ritorno, il parallelepipedo di carta inopinatamente abbandonato abbia subito una visibile trasformazione fisica.
Pagine gonfie ingiallite ondulano la copertina, priva della sua usuale e uniforme compattezza. Ovunque angoli consunti s’arricciano verso l’alto o verso il basso. La simmetria quasi perfetta che caratterizzava il vostro volume al momento dell’acquisto appare ora completamente scompaginata.
Se il manufatto tanto bramato ha fatto questa fine ignominiosa la colpa è solo e soltanto sua, della porosità.
La porosità è una della caratteristiche strutturali microscopiche della carta. Essa, la porosità, altro non è che la distanza tra le fibre di cellulosa che compongono il foglio. Una distanza che nasce dal volume dei pori e degli interstizi del contenuto fibroso, suscettibili d’essere riempiti da un fluido. Aria o liquidi che siano, non fa differenza.
La capacità d’assorbimento è quindi una caratteristica costituiva della materialità del libro. Senza la porosità l’inchiostro non troverebbe requie sulla pagina e scivolerebbe via con la stessa lenta tristezza delle gocce d’una pioggia autunnale su una finestra sporca. Il libro è perciò — e per sua stessa natura — una spugna capace d’imbeversi di quanto la circonda.
Quante cose può assorbire un libro in un giorno, un mese, un anno?
Difficile rispondere. Eppure, ogni volta che lo sguardo mi cade su Stupidi Giocattoli di Legno — non importa se sia la mia copia personale adagiata sulla libreria o una appena svolta dal cellophane protettivo che l’avvolge all’interno del cartone — mi par di vedere la copertina sempre un poco più aperta, il dorso più liso e sporco, le pagine sempre un poco più asimettriche e gonfie; come se lo avessi, appunto, lasciato esposto all’umidità d’una notte d’estate.
Perciò lo prendo in mano, e lascio scivolare i polpastrelli su quella guancia rugosa che è ormai diventata la copertina. Ne scorro l’orografia di ricordi che ha disegnato le pieghe sul cartoncino.
Sono passati poco più di dodici mesi, da quell’otto d’ottobre che vide questo libro arrivare per la prima volta sugli scaffali delle librerie di tutt’Italia. Da allora, e fino a maggio di quest’anno 309 delle 329 copie distribuite da PDE nelle librerie sono andate vendute. 112 sono state smerciate nel circuito di centri sociali, info point e spazi occupati; 30 durante le presentazioni organizzate in giro per l’Italia.
Altre 24 copie sono state invece inviate come ufficio stampa.
Su un totale di 610 copie stampate, 475 hanno trovato la loro strada nel mondo.
L’editore si sarebbe aspettato qualcosa di più, ma con la crisi che c’è il libro si è comunque difeso bene. Di sicuro ben al di sopra delle mie aspettative. Segno che il libro sa, se non parlare, almeno balbettare con la sua voce e può rivolgersi non soltanto agli skateboarder più incalliti, ma a chiunque voglia saperne qualcosa in più su questa stramba sottocultura pop.
È qualcosa di cui non posso che essere felice, perché questo libro mi ha dato tanto. Non solo come “scrittore” (ché fatico ancora a dirmicisi), ma soprattutto come persona.
Scrivere un libro dovrebbe servire anche a questo. A farti abbandonare la tranquillità della tua zona di comfort e a portarti a contatto con l’ignoto, l’inaspettato, l’inconsueto.
Da nord a sud dello Stivale, Stupidi Giocattoli di Legno ha trovato asilo nei luoghi e nelle situazioni più diverse: dalle librerie agli skatepark, dai locali agli spazi sociali e occupati.
Una geografia che, a ricostruirla, testimonia quanto strana e multiforme sia questa creatura di carta, capace di adattarsi a terreni tanto diversi tra loro. A pensarci bene, questa è anche una delle caratteristiche distintive dello skateboarding come disciplina urbana.
Il viaggio di Stupidi Giocattoli di Legno inizia da Benevento, un lembo di Campania distante 849 chilometri da casa. Coprire questa distanza è un’esperienza che mischia geografia, spazialità, economia e politica.
Perché da Roma in giù il tempo si contrae; e per arrivare in Campania ci vogliono lo stesso numero di ore necessarie a percorrere i 644 chilometri che separano Bolzano dalla Capitale.
Questo trenino a gasolio che mira Benevento, appesantito dall’esorbitante numero di passeggeri diretti a Frosinone, esiste solo in quanto servire la stazione ciociara è il compromesso richiesto dalla Regione Lazio alla Regione Campania come prerequisito per il mantenimento della linea.
Scopro così, nell’ora di ritardo che il convoglio accumula perché il carico eccessivo non gli permette di viaggiare a più di 40 km/h, che senza quella fermata questo treno non accumulerebbe il ritardo che prolunga il mio viaggio per un tempo reso davvero insopportabile dall’esaurirsi del contenuto di qualsiasi supporto digitale d’intrattenimento che porto con me. Eppure, senza quella fermata, il treno non esisterebbe e il ritardo è lo scotto necessario da pagare per poter raggiungere il capoluogo del Sannio.
Mentre rimugino su questo paradosso, la campagna romana intorno a me sfuma gradualmente nelle brume che avvolgono le rocciose pareti strapiombanti delle valli molisane.
A invitare il libro al Centro Sociale Depistaggio — una ex pista di pattinaggio nel cui anello gli skater locali hanno tirato su qualche struttura — è @EveBlisset, storica amica di tweet. È lei ad accogliermi alla fine del viaggio, nella stazione dai pavimenti rivestiti marmo che noto essere deliziosmente skateabili.
Gli spazi occupati/autogestiti/di movimento sono una costante del tour di presentazione del libro. Oltre a Benevento anche a Roma e a Senigallia siamo stati ospiti di queste realtà. E a ogni tappa abbiamo assaporato un grado di radicalità differente.
Per chi come me viene dalla Provincia Autonoma, l’incontro con gli spazi di movimento ha qualcosa di sorprendente. In Alto Adige, la cultura giovanile si esprime in luoghi a essa deputati, noti come “il circuito dei centri giovanili”. Nati negli anni ’90 come risposta della politica locale all’eroina, hanno finito per istituzionalizzare il desiderio e disinnescarne la carica eversiva. Non mancano di nulla, se non della presa di coscienza politica di cosa significa gestire uno spazio.
In Alto Adige l’impressione è che tutto sia dovuto in maniera inversamente proporzionale all’impegno. Fuori il contrario.
Senza impegno (e senza antagonismo) nessuno è disposto a darti nulla.
Senza lo spazio libreria tirato su all’Arvultùra a Senigallia nessuno distribuirebbe editoria indipendente.
Senza le ragazze e i ragazzi che animano il Depistaggio, gli skater non avrebbero un posto dove costruire le strutture e sperimentare il DIY.
In entrambi i casi, lo spazio occupato/autogestito è l’unica alternativa all’orizzonte plastificato che la provincia offre ai suoi abitanti.
A Roma invece, tra i vicoli e le borgate della Città Eterna, le cose si tingono di una tonalità diversa e tutto sembra farsi più grave, e serio.
Sarà anche perché la prima volta che mettiamo piede a Roma è ai primi di Dicembre. C’è Più Libri Più Liberi e il bubbone di Mafia Capitale è affiorato da sotto la pelle della nazione da pochissimi giorni.
La pioggia lieve e fredda di quei giorni ricopre tutto con una patina umida e lercia. Lo sporco in sospensione persiste sui marciapiedi rendendoli viscidi e scivolosi. È camminando per quelle strade, provando a schivare la monnezza e restare in equilibrio, che arriviamo a Spin Time Labs.
Spin Time Labs è un’occupazione abitativa, due parole che, ancora una volta, hanno poco a che spartire con la mia realtà di Provincia. Qui l’emergenza abitativa non esiste e nessuno ha bisogno di organizzarsi per reclamare il diritto alla casa. A Roma è diverso.
Fuori dai cancelli sprangati di questo palazzone dell’INPDAP aspettiamo il Duka, che ospita me e il libro per una diretta radiofonica dalle cantine dell’edificio. Uno spazio rimasto abbandonato per anni, che i movimenti hanno restituito a una dozzina di famiglie, come si capisce bene dal numero dei passeggini parcheggiati nell’androne.
Per accedere all’interno dell’edificio, dove c’è anche un auditorium da 200 posti e una piccola osteria autogestita che serve dell’ottima birra artigianale, dobbiamo passare da una porta di servizio.
I cancelli principali sono sbarrati, troppo difficili da controllare. Appena dentro dobbiamo accreditarci al tavolo della sorveglianza. Una scrivania di legno con una console i cui schermi rimandano le immagini delle telecamere a circuito chiuso che scrutano le strade adiacenti l’edificio. Rivendicare il diritto alla casa, nella capitale d’Italia, è illegale e bisogna fare attenzione. Spin Time Labs potrebbe venir sgomberato da un momento all’altro e la prudenza non è mai troppa.
Al termine della presentazione mi avvicinano due ragazzi, che sono venuti apposta a sentirmi parlare. Sono Marla e Nico, una coppia che da qualche tempo gestisce il Bunker Skatepark.
Il Bunker è uno dei due skatepark della capitale. Sta al 305 di viale Kant, a cavallo tra il III e il IV Municipio di Roma, poco oltre l’Aniene, nel quadrante nordest della città, un paio di svincoli più in là della Rebibbia di Zerocalcare.
Si tratta della piccola propaggine di un centro sportivo, usato anche da una delle più blasonate società romane di basket giovanile.
È in questo lembo di cemento stretto tra i palazzi e la strada, sulle assi consunte dei suoi bump, della mini o del vert che giovani promesse dello skateboarding nostrano come Ale Mazzara hanno mosso i loro primi passi.
Questo perché Marla e Nico si sono messi in testa che sia possibile insegnare lo skateboarding ai bambini e hanno deciso di fare di questa cosa il loro lavoro.
Insegnare lo skate non significa solo insegnare i trick e le manovre. Significa soprattutto tramandarne la cultura.
Perciò al Bunker si impara innanzitutto a divertirsi. A usare lo skate come strumento per crescere, per capire meglio il proprio corpo e acquisire sicurezza di se stessi. Marla e Nico insegnano il rispetto e i valori di una sana competizione.
I primi a dover essere educati, di solito, sono i genitori. Ai bambini non serve spiegare che ognuno ha i propri tempi, che nello skate non ci sono percorsi prestabiliti, trick obbligatori, traguardi che vanno raggiunti a tutti i costi.
È per questo che mi hanno invitato a presentare il libro in un pomeriggio di Febbraio. Per raccontare quello che ho imparato su e ricevuto da questa cultura di strada.
Il clima è amichevole, informale. A lato skatepark si grigliano salsicce e hamburger, sulle strutture si macinano trick anche se il cielo è grigio e le nuvole galoppano veloci minacciando pioggia.
Fa freddo. Mi avvolgo nella giacca mentre ripasso mentalmente frasi e concetti che ho ormai affinato di presentazione in presentazione. Ma soprattutto osservo il piccolo microcosmo di umanità variamente raccolta intorno allo skatepark.
Si percepisce come il Bunker sia, nomen omen, un luogo protetto, dove i genitori sanno di poter lasciare i figli ma dove a questi non viene nascosto nulla della realtà che li circonda.
Marla e Nico sono zii e fratelli maggiori allo stesso tempo. Proteggono senza nascondere, educano senza reprimere, insegnano senza essere superiori.
Fa tenerezza vederli alle prese con la loro piccola, grande famiglia acquisita.
Famiglie di questo tipo — allargate, atipiche, anarchiche — ne ho incontrate più d’una durante questi mesi di tour in giro per l’Italia. Una, quella di Firenze delle Letterature, era presente al gran completo, quando le amiche e gli amici di 404: file not found mi hanno invitato alla libreria Black Spring.
Black Spring è un piccolo spazio ritagliato nelle pietre e tra i vicoli di San Frediano. Coraggioso nella scelta che propone ai suoi clienti (editoria e grafica indipendente, underground, controculturale) quanto piacevole da visitare.
Il calore delle luci e degli arredi t’avvolge e t’accarezza non appena ne varchi la soglia. Ti invita a fare un giro tra gli scaffali, e a restare per una tisana o una birra. Specialmente in quel gelido pomeriggio di marzo. Col vento che cala dal nord carico di refoli ghiacciati, scheggiando la punta delle orecchie e facendoti colare il naso, irrimediabilmente arrossato.
Ci ritroviamo così, bardati con sciarpe e cappelletti di lana. Ci sono Santoni, Magini, Merlini, Pasquini e qualche altro dei fiorentini che nemmeno conosco, o conosco di striscio. Quelli che intorno alla letteratura ci hanno costruito una vera e propria scena. Di quelle che “se cresce uno, cresciamo tutti”.
O almeno quella è l’atmosfera che si respira da Black Spring, in un crepuscolare pomeriggio di marzo passato a parlare di tavole, ruote e manovre. Glielo invidio quel senso di familiarità. Quella coesione nella differenza che rende la scena letteraria fiorita sulle rive dell’Arno qualcosa di unico e speciale nel panorama nazionale.
Un’atmosfera simile la respirerò pochi mesi dopo a Padova e l’ho respirata anche qualche giorno prima, a Milano.
È un pomeriggio di Febbraio, umido e nebbioso come solo una Milano di celluloide saprebbe essere, quando presento il libro al Surfer’s Den.
Il Den è un locale che a guardarlo da fuori non gli daresti due lire. Sembra una baracca tirata su alla buona accanto a un campo sportivo. Dentro è un brillante. La sala in cui ci accomodiamo è lunga e stretta, il bancone all’estremità di una professionalità abbacinante.
Sono reduce da una serata alcolica che ha messo a dura prova il mio fisico e la mia dignità. Nonostante il pranzo sostanzioso, la bocca è ancora impastata e l’idratazione irregolare. Compenso con un richiamino di birra, mentre Marco Philopat introduce il libro e insieme a Franz Fiorentino e altri cominciamo a parlare di tavole.
Il tempo vola, e quando mi devo alzare per andare a prendere l’ultimo treno utile per tornare a casa la discussione è ancora viva. Vorrei restare di più, scambiare due parole col pubblico che s’è preso lo sbattimento di venirci a sentire, ma non posso.
Tram più metro ed eccomi in Centrale, neanche il tempo per vedere se sui muretti qualcuno sta skateando e sono di nuovo seduto su un treno. Provo a leggere un po’, ma il grigiore della campagna lombarda ha più attrattiva del bagliore biancastro del tablet.
La palpebra cala, mi stringo nel giaccone per resistere al freddo e lascio che il sonno mi avvolga. Tra poche ore sarò di nuovo a casa.
Nota: il racconto che avete letto — disordinato, sconnesso, esageratamente personale — è un forma di ringraziamento per tutte le persone che hanno incrociato, volenti o nolenti, le traiettorie di Stupidi Giocattoli di Legno. Questi incontri, le strette di mano, i sorrisi e gli sguardi sono ciò per cui amo scrivere. Ripagano della stanchezza, delle levatacce e dei ritardi del treno. Sperò che leggerete queste righe e spero di non avervi deluso, di avervi regalato un momento, se non di felicità, almeno di colore nel basso ostinato dell’esistenza fin troppo grigia a cui ci condanniamo e ci condannano. Ancora grazie a tutti.