Recensione a Cent'anni a Nordest - Tutti gli indipendentismi si somigliano, ogni indipendentismo è indipendentista a modo suo
Tutti gli indipendentismi si somigliano, ogni indipendentismo è indipendentista a modo suo. Il vecchio Leone Tolstoj non credo se ne avrà a male se ci siamo permessi di detournare il celebre incipit del suo Anna Karenina per usarlo come sottotitlo della presentazione bolzanina di Cent'anni a Nordest, il reportage narrativo che Wu Ming 1 ha dedicato al Triveneto nel centenario dello scoppio della I Guerra Mondiale.
La matematica logica della citazione tolstoiana, rivista all'occorrenza nel suo contenuto, ben si prestava a catapultare lo spettatore nel ventre della bestia. Espressione che dà il nome alla tournée di presentazione del libro, la cui penultima tappa sarà proprio la presentazione bolzanina di martedì 3 Novembre, alle ore 18.00, presso l'aula magna del Liceo Classico Carducci.
Nel tentativo di cucire insieme il passato e il presente, per mostrare come i fantasmi dell'Evento aleggino ancora sulla realtà odierna, uno dei temi toccati da Wu Ming 1 è proprio l'insorgenza di movimenti neoindipendentisti, il cui uso disinvolto del passato storico viene passato al vaglio dello scrittore con lo scopo di mostrarne il phylum.
Phylum, dal greco ϕυλή (tribù), è per estensione il vocabolo che in etnologia e in linguistica viene usato per riferirsi a un raggruppamento di lingue, che si credono tra loro imparentate.
E in effetti, la galassia neoindipendentista che s'è aggregata nel Nordest parla la stessa lingua. Che si tratti del revival asburgico che impazza dal Trentino alla Venezia Giulia, o del più tradizionale indipendentismo suedtirolisch, quello che non cambia è l'ordine del discorso che tende, in diverse gradazioni, verso il discorso di destra.
O quantomeno verso la sua versione post politica. Quella che maschera il conservatorismo dietro una pretesa neutralità rispetto agli abituali schemi interpretativi della differenza politica.
Né di destra e neppur di sinistra, per dirla in parole povere. E in ogni caso mai mai mai mai di sinistra, come ama dire un caro amico.
Dall'uso tecnicizzato del passato nascono così alcune delle esperienze raccontate nel libro. Il multiculturalismo white pride dei movimenti austronostalgici, la fascinazione per il compagno/camerata Putin o l'antifascismo da destra degli Schützen sudtirolesi.
Leggendo Cent'anni a Nordest si ha l'impressione che quest'espressione aridamente geografica, scelta per identificare quelle che furono chiamate un tempo terre irredente, fornisca oggi un punto d'osservazione privilegiato per cogliere, nel suo farsi, la genealogia di questo discorso.
Leggere e portare questo libro a Bolzano significa mettere le mani nell'olio bollente e ustionarsi con l'attualità.
Un discorso che in più di un'occasione si appoggia al regime simbolico del senso, per trarne legittimazione e consistenza nella sfera pubblica. E al simbolo si fa spesso ricorso quando nella memoria e nel passato si cercano le basi per la propria azione nel presente.
Ma il regime simbolico del senso è forse uno dei più difficili da maneggiare. Perciò va maneggiato con la cautela che sembra mancare a questa costellazione di partiti e movimenti che brulica tra le terre del confine orientale.
Il simbolo non possiede infatti alcun potere trasformativo. Stabilisce equivalenze, postula assiomi, crea legami difficilmente solubili.
A Bolzano - città di simboli - questo lo sappiamo bene.
Perciò leggere e portare a Bolzano questo libro, significa mettere le mani nell'olio bollente e ustionarsi con l'attualità. Un attualità che ha nel simbolico uno dei suoi terreni di scontro.
La proposta di due storici locali per cambiare nome alla via tristemente dedicata al generale Cadorna, uno tra i più inetti e crudeli ufficiali dell'esercito italiano durante il primo conflitto mondiale, è stata accolta da scetticismi quando non da aperta ostilità.
E se non stupisce che il fuoco di sbarramento parta soprattutto da destra, non sono mancate bordate anche da sinistra. Le critiche, condite da discrete dosi di benaltrismo e presunte esigenze pratiche mai del tutto chiarite, mostrano come l'abitudine al simbolo sia radicata; e con essa una congenita difficoltà a concepire il cambiamento.
In occasione dell'inaugurazione del percorso espositivo al Monumento della Vittoria, l'installazione dell'anello di led sul colonnato frontale del fascistissimo memoriale fu accompagnata da uno sguaiato coro di polemiche. Polemiche politiche piuttosto che civiche, che ben chiariscono il senso di questa difficoltà a concepire il cambiamento.
Tra accuse di inefficienza, scarsa praticità (un cavallo di battaglia) e bruttezza si distinse Alessandro Bertoldi. Virgulto autoctono di Forza Italia (sempre che il raggruppamento berlusconiano si chiami ancora in questo modo) e delfino della lady di ferro forzista Micaela Biancofiore, il Bertoldi ebbe la brillante idea di invitare Vittorio Sgarbi a prendere posizione sull'intervento.
Purtroppo per Bertoldi e per la destra locale, che sulla difesa dell'artisticità aveva puntato molta della sua vis polemica, invece che vergare parole di fuoco il noto critico si limitò ad affermare che "mi sembra positivo che il Monumento alla Vittoria non sia più divisivo per la città dopo tanti anni, e che quest'operazione lo renda vivo e di tutti. I led luminosi magari non sono proprio gradevoli, ma tollerabili e sobri. Quella operata in generale mi sembra una soluzione intelligente, un cambiamento positivo."
Anche Sgarbi parve rendersi conto che l'anello di led serviva innanzitutto per segnare l'avvenuto cambiamento. Non un orpello quindi, sostituibile in altro modo, ma un segno concreto in grado di rompere tanto l'abitudine percettiva quanto l'ordine simbolico a cui fino a quel momento il monumento appariva legato.
Se oggi l'azienda di promozione turistica è in grado di utilizzare il Monumento alla Vittoria all'interno della proprio strategia di comunicazione sui social, è proprio grazie a questo avvenuto cambiamento.
Nel regime semisimbolico del senso di stabiliscono relazioni che son sempre locali al testo e in esso localizzate.
Una trasformazione che mira a estrarre dalla loro stasi il complesso di simboli che testimoniano il passato cittadino, per farli rientrare in un differente regime del senso: quello che la semiotica chiama il "semisimbolico".
All'interno del semisimbolico le relazioni di senso che si stabiliscono tra due elementi sono sempre locali e localizzate. Locali al testo e localizzate in esso. Questo rende il semisimbolico più malleabile e versatile rispetto al simbolo. All'universalità si sostituisce la localizzazione e la relazione funziona fintanto che si è dentro un certo testo; al di fuori di quello specifico testo essa è suscettibile di essere ridiscussa.
Rientra in questo regime l'intero processo di musealizzazione dei relitti fascisti della città. Iniziato con l'inaugurazione del percorso espositivo al Monumento delle Vittoria, proseguito con quello dedicato alle semirurali, dovrebbe concludersi con l'intervento di risemantizzazone del fregio di piazza tribunale.
L'apposizione di una frase di Hanna Arendt - "nessuno ha il diritto di obbedire" - al bassorilievo raffigurante l'allegoria delle conquiste fasciste è forse il più limpido dei tre tentativi.
Il montaggio della citazione sul corpo vivo della retorica fascista crea nuovi e inaspettati legami. Scioglie il simbolo dalle sue relazioni e, soprattutto, previene dalla rimozione del manufatto. Un gesto che lo avrebbe trasformato in una versione potenziata del simbolo, ovvero un feticcio. Un feticcio buono da agitare in ogni occasione per soffiare sulle braci del vittimismo italiano.
Per fortuna anche i legami simbolici più stretti possono essere messi in discussione. E sciolti, all'occorrenza. Perché la geografia emozionale di una città è cosa viva. Non si dà per acquisita, ma si costruisce, col culo in strada e il naso negli archivi.
Wu Ming 1
Rizzoli (4 giugno 2015)
272 pagine
L'audio della serata
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