#ticostaca - Il cielo sopra i Caraibi
Dici Caraibi e subito t'immagini spiagge candide, mari azzurri e cieli sereni. La Niña per noi aveva in serbo altri programmi. Quello che state per leggere è il resoconto della nostra esperienza sulla costa caraibica della Costa Rica. Ricordatevi l'ombrello.
Il cielo sopra i Caraibi è nero. Nero con infinite variazioni di grigio e bianco. Ma sempre con spiccate connotazioni temporalesche e, di quando in quando, tempestose. Sui Caraibi, lo abbiamo appurato, piove. Piove con una costanza che ha del maniacale. Ci sono giorni, di quelli che passiamo sui Caraibi, che ogni due o tre ore circa piove...per almeno due ore; e non si tratta di una leggera pioggerellina, nemmeno di "due gocce" e neppure di una generica pioggia o un temporale passeggero.
No, sui Caraibi quando piove, piovono acquazzoni violenti che disegnano davanti ai tuoi occhi un'effetto neve di gocce così grosse e fitte da sembrare schizzate a china sullo sfondo grigiastro delle nuvole. Così, mentre i goccioloni picchiettano sui tetti in lamiera degli edifici la loro melodia monocorde, il grigio diventa tanto pesante e pervasivo da virare ogni colore nella sua deprimente tonalità.
Ti si attacca addosso, quel grigio, e piega la testa, le spalle e la schiena. Appiccicoso come l'umidità che bagna i vestiti e impregna ogni cosa: zaini, lenzuola, scarpe e calzini. Impregna pure l'anima, il morale, l'umore. Quest'ultimo lo porta giù, in basso, sotto la suola delle scarpe. Da lì scorre via, in mille rivoli infiniti d'acqua torbida della grassa terra di questi luoghi. Scorre via verso il mare dove si perderà tra le onde ostili, sferzate dal vento che muggisce senza sosta, giorno e notte. Un mare che non avvolge, non abbraccia, non sostiene. Ma spinge, rovescia e rifiuta.
Questi sono i nostri Caraibi: e, a dirla così, sembrano una sòla.
Ci hanno detto che è colpa de La Niña, ovvero della parte femminile di quel fenomeno accoppiato di teleconnessione atmosfera-oceano che di recente è stato battezzato ENSO. Una sigla che sta per El Niño-Southern Oscillation (El Niño - oscillazione meridionale). Nelle sue vesti femminee, l'ENSO determina un raffreddamento delle correnti dell'Oceano Pacifico centro-orientale. L'ENSO è un fenomeno caotico e, pur avendo un andamento periodico e una tendenza a presentarsi soprattutto nei mesi di dicembre e gennaio (da qui il suo soprannome, El Niño, il bambino, in riferimento al bambin Gesù), quest'anno sono mesi che la sua versione in gonnella tiene sotto scacco il litorale caraibico della Costa Rica.
In soldoni, in una situazione di Niña, questa zona del paese è caratterizzata da un tempo infame, forti piogge, sostanziale instabilità climatica e l'impossibilità di azzardare la più elementare previsione del tempo. Qui, ci dicono, piove da mesi. Mentre a ovest, sulla costa del Pacifico, nel Guanacaste, è da ottobre che non butta acqua dal cielo e le bestie muoiono per la sete e il troppo caldo.
Ce ne accorgiamo, in modo lampante, quando decolla il volo che ci riporta verso l'Italia. Il Paese è letteralmente diviso a metà, coi Caraibi ricoperti da un tappeto di bassissime nuvole nere, che si stende a perdita d'occhio, mentre il cielo sulla costa del Pacifico è sgombro da qualsiasi tipo di nembo.
On the road
Sui Caraibi arriviamo dopo tre notti passate tra Alajuela e San José, la capitale. È dalle strade di quest'ultima che prendiamo il nostro primo autobus della vacanza, direzione Cahuita.
Il torpedone parte dal Terminal San Carlos, una stazione situata nella zona nord-ovest della città. Un quartiere scalcagnato, dove le principali attività sono gli ingrossi di ortofrutta, i ferramenta e i banchi dei pegni.
Questi ultimi li riconosci da tre, fondamentali, elementi: la generale pulizia dei pavimenti, lo sguardo bonario ma inflessibile delle guardie giurate all'ingresso e gli onnipresenti muri di casse acustiche king size che sparano musica latinoamericana a tutto volume, rivolte verso la strada. Mi chiedo come mai le casse acustiche siano un articolo così gettonato nei banchi dei pegni. L'unica risposta sensata che mi viene in mente è che in Costa Rica sia prassi acquistare, invece che noleggiare, il sound system quando si fa una festa e che, una volta terminato il party, si cerchi di ammortizzarne i costi impegnando l'intero impianto. Ma questa spiegazione convince a malapena me stesso, figuriamoci voi altri.
Arrivati al terminal scopriamo che il nostro autobus dovrà deviare dal suo percorso ordinario. Le forti piogge intorno alla città di Siquirres hanno causato inodazioni, crolli di ponti e danni alla Interstatale 32, la strada che collega i Caraibi con il resto del paese. L'autista sarà perciò costretto a passare per Turrialba, una cittadina tra le montagne. La deviazione è uno scherzetto che allungherà il viaggio di quasi due ore. Ma tant'è, soluzioni alternative non ce ne sono e, quindi, partiamo.
Ovviamente il più contrariato dalla deviazione è l'autista del pullman, che di conseguenza adotta uno stile di guida estremamente sportivo, inanellando una serie dietro l'altra di sorpassi al limite, che mettono a dura prova i miei nervi. In particolare quando s'intestardisce a scavallare gli enormi truck che affollano i tornanti della strada che attraversa le montagne prima e dopo Turrialba o quando, una volta riguadagnata la pianura, bulleggia gli ignari automobilisti facendo annusare all'autobus il culo delle vetture che lo precedono, obbligandole così a cedere il passo.
Frastornati ma vivi, arriviamo a Cahuita dopo circa 5 ore e mezzo di viaggio e 216 chilometri di strada.
Cahuita city rockers
Cahuita è una manciata di case che non sembrano mai essere state nuove, come molte altre cose da queste parti. Disposte in maniera piuttosto ordinata lungo un tratto di terra lambito dal mare, formano un reticolo di vie sterrate che confina a nord con la Playa Negra e a sud con la Playa Blanca, alle cui spalle si stende il Parque Nacional Cahuita, dieci chilometri quadrati di giungla lussureggiante.
In questo villaggio sonnolento tutto sembra muoversi al rallentatore, seguendo il placido ritmo di una gradevole melodia calypso, che esce dalle finestre della stazione di polizia collocata nei pressi della mole svettante dell'immancabile ripetitore per le telecomunicazioni a nord del paese.
In giugno, da queste parti, è bassa stagione; più di un albergo ha le serrande abbassate e i turisti si contano sulle dita di una mano. Ma ugualmente facciamo fatica a immaginarci che l'atmosfera di questo luogo possa essere diversa da quest'indolenza che sembra contagiare immediatamente anche noi.
A Cahuita alloggiamo al Secret Garden, un minuscolo complesso di cabinas gestito da un'olandese tanto magra e dall'aria così triste che più di una volta ci domandiamo quale possa essere la pena che questa donna si porta dentro. I suoi occhi acquosi, come quelli di un gatto, stonano con la spensieratezza che ci aspettavamo di trovare qui sui Caraibi. Non ci mettiamo molto a capire che questi luoghi hanno un fascino ben diverso da quello che ci eravamo immaginati. Qui la bellezza è una bellezza malinconica, offuscata dal velo di tristezza che ci sembra di scorgere al fondo del bianco degli occhi delle persone con cui abbiamo occasione di parlare.
Non so se questa malinconia sia l'effetto del maltempo che attanaglia queste zone da mesi o se sia un residuo della loro storia così particolare. A differenza delle città del centro del Paese, qui le persone hanno tratti giamaicani. Molti dei loro discendenti infatti vengono proprio da quell'isola. Gli abitanti di Cahuita sono figli e nipoti degli operai assoldati per costruire la ferrovia che avrebbe dovuto collegare la costa caraibica al resto del paese. Un'opera il cui fallimento fece la fortuna dell'americano Minor Keith, la cui impresa di costruzioni era stata incaricata di realizzare la strada ferrata. Per provvedere al sostentamento dei suoi operai con un cibo che non incidesse troppo sui costi di realizzazione dell'opera, Keith aveva ordinato di coltivare a banane i terreni accanto ai binari, che il governo costaricense gli aveva assegnato in concessione quando s'era accorto di non poter più sostenere il costo della realizzazione dell'opera. Accortosi che i costi della ferrovia si stavano facendo insostenibili, Keith decise di provare ad ammortizzarli, vendendo questi frutti nel suo paese d'origine. Era la fine dell'800 e di lì a poco le banane avrebbero conquistato il Nord America, facendo di Keith un uomo ricco. Nacque così la United Fruit; tutto quello che ne conseguì non credo debba spiegarvelo io.
Turismo a parte, in queste zone il lavoro scarseggia. In un modo o nell'altro tutti sembrano avere a che fare con il business dell'accoglienza. Anche i ragazzini che spacciano - "ganjablanca-poco-precio-amigo-italiano" - soddisfano una domanda che è quasi esclusivamente turistica, anche se l'erba fa parte della cultura caraibica e loro sembrano rivendicare questa cosa con una punta d'orgoglio.
A Cahuita ci fermiamo giusto un paio di notti. Il tempo per esplorare il parco nazionale e fare il primo incontro con la giungla, nell'unico giorno di sole che ci viene concesso da queste parti. La giungla è magnifica, dà l'impressione di essere viva, perché a ogni passo qualcosa si muove. Possono essere granchi, formiche tagliafoglie, lucertole che corrono via rapidissime, scimmie o uccelli misteriosi ma non cambia la sensazione di vibrante vivacità che questi alberi e queste piante ti trasmettono mentre le attraversi.
I giorni successivi ci spostiamo a Puerto Viejo de Talamanca, una cittadina altrettanto caraibica, ma più grande e confusionaria di Cahuita. Vorremmo usarla come base per raggiungere Bocas del Toro, nel Panamà; ma il viaggio è più difficoltoso di quanto pensassimo e a malincuore siamo costretti a rinunciare. A metterci i bastoni tra le ruote ci pensa anche il meteo. Nei due giorni che passiamo qui piove praticamente sempre, con costanza inesorabile. In più alloggiamo in un ostello, il Rocking J's, che forse siamo troppo "anziani" o in viaggio da troppo poco tempo per poter apprezzare. Tra le lisergiche decorazioni di questa costruzione, la cui architettura mi sembra la cosa più vicina a un campo paramilitare che abbia mai visto, non ci resta altro che abbandonarci ai vizi e, complice il relax psicoattivo, una notte sento nitido il respiro del mare. La sua vibrazione sale attraverso il corpo fino alla mia mente. Il fragore delle onde diventa quasi tangibile nel formicolio che m'attanaglia le dita. Per attimi che mi sembrano infiniti resto lì a contemplare il mar dei Caraibi che mi sbatte in faccia le mie fragilità, le ansie e i cattivi pensieri. Un po' lo odio per questo.
La mattina dopo, debilitati da due giorni di maltempo, lasciamo Puerto Viejo con l'obiettivo di spostarci sulla costa del Pacifico. Ci fa compagnia un ragazzino tedesco a cui ci scordiamo di chiedere il nome. Ha 21 anni e ne dimostra 17, ma la consapevolezza con cui ci racconta i suoi progetti di vita gliela invidio. Io alla sua età sapevo a malapena in che città mi trovavo e quando sarebbe stato il mio prossimo esame.
Apocalypse Now Tortuguero
Sui Caraibi torniamo qualche settimana dopo, quando ormai mancano pochi giorni alla fine del viaggio e anche gli spostamenti più ardui ci fanno un baffo. Nella nostra fuga precipitosa dal maltempo di Puerto Viejo ci siamo lasciati alle spalle anche il villaggio di Tortuguero e qui, maltempo o no, ci vogliamo andare a tutti i costi.
Tortuguero è un pueblo di poco più di mille anime, con il mare davanti e la giungla alle spalle. Per arrivarci devi attraversare una pianura sopra cui corrono rapide le nuvole temporalesche. Attraversi Guàpiles, cambi il bus a Cariari e t'inoltri su strade sterrate fino a La Pavona: nell'ultimo tratto ci metti circa un'ora per fare poco più di venti chilometri. A quel punto ti aspetta un taxi d'acqua che s'inoltra per un'altra ora abbondante in un intricato complesso di canali all'interno della giungla, fino a raggiungere Tortuguero. Ed è subito Apocalypse Now!
Con noi sulla barca c'è anche Roberto, un ragazzo di 21 anni nato e cresciuto proprio a Tortuguero. Di mestiere fa la guida naturalistica, Così almeno ci racconta dopo averci impezzati alla stazione degli autobus di Cariari. Ha studiato per fare questo lavoro, per accompagnare i turisti alla scoperta del suo mondo, della giungla in cui è nato e che conosce fin da bambino. Eppure il suo sguardo e la sua voce dimostrano molti di più dei suoi 21 anni. Ovviamente lo assoldiamo ed è con lui che la mattina successiva, di buon'ora, andiamo alla scoperta di questo incredibile ecosistema.
Dal porticciolo situato all'imbocco del Parco Nazionale partono almeno altre cinque o sei imbarcazioni. Alcune dotate di silenziosi motorini elettrici. Noi invece siamo a bordo di una canoa e l'unica forza motrice di cui disponiamo sono le nostre braccia. Bastano poche pagaiate per lasciarci alle spalle il villaggio e perderci nel fitto della giungla. Siamo avvolti dal silenzio mattutino, rotto solo dallo sciabordare dell'acqua che ci circonda.
Qui in mezzo è tutto verde, grigio e marrone. Infinite gradazioni di verde, grigio e marrone; tinte che ai nostri occhi formano un tappeto uniforme di colore, mentre Roberto scorge differenze microscopiche a noi invisibili.
La giungla mi affascina e m'ipnotizza. Mi stordisce con le sue dimensioni, coi suoi misteri che ci è dato solo di sfiorare, con il senso di costante minaccia che costringe i sensi a stare all'erta. Attraversare la giungla significa trovarsi in uno stato di febbrile concentrazione che ti obbliga a percepire l'ambiente che ti circonda con la massima ricettività possibile. È una sensazione mai provata prima, che mi trasferisce una tensione elettrica ogni volta che la vivo, lasciandomi sempre addosso una profonda stanchezza quando quest'elettricità si scarica a terra.
Il pomeriggio dopo la gita tra i canali della giungla lo passiamo nel giardino dell'albergo. Sdraiato su un'amaca realizzo che Tortuguero è un altro mondo, lambito dal mare e dai suoi borborigmi, battuto dal vento che lascio mi accarezzi violentemente, quasi schiaffeggiandomi, il viso. Cari Caraibi - penso - siamo mica andati tanto d'accordo noi due. Ma mi mancheranno i vostri capricci e la malinconia, il lamento, il de profundis che in questo istante cantilenate al mio orecchio.
ps. le foto che illustrano questo e gli altri post della serie #ticostaca sono state realizzate dalla mia compagna e da me nel corso del viaggio.