I diari dello #skatemolotov: Trieste
#stupidigiocattolidilegno funziona come un magnete, attira storie di skate dalle sette direzioni dello spazio
— El_Pinta (@El_Pinta) 8 Ottobre 2014
Da quando ho iniziato a scriverlo, e molto di più ora che l'ho pubblicato, Stupidi Giocattoli di Legno non ha fatto altro che attirare storie di skate da ogni dove. Così ho scoperto che persone diversissime tra loro hanno in comune una storia da raccontare su questo bizzarro oggetto fatto di legno, alluminio e ruote di poliuretano. Spesso sono storie minime, periferiche, storie di persone che durante la loro vita hanno solo incrociato lo skate per poi lasciarlo, ma su cui lo skate ha in qualche modo lasciato una traccia che doveva soltanto essere riportata alla luce.
Ed è con questo fare un po' da archeologo che mi sono messo in testa di raccogliere queste storie, questi diari dello #skatemolotov. La prima storia è quella che mi ha raccontato @Scalva_. Con lui ci siamo conosciuti su Twitter e per un periodo è stato uno dei fotografi che ha illustrato La rotta per Itaca il blog collettivo che avevvo fondato con alcuni amici. Scalva mi sarebbe piaciuto intervistarlo per il libro, lui skateava tra la fine degli '80 e i primi '90, a Trieste, ed era pure sponsorizzato, oltre ad avere una magnifica collezione di riviste di skate dell'epoca. Purtroppo non ci sono riuscito, perché Scalva, anche se lo conosco poco e non ci siamo mai visti di persona, mi sembra uno di quei tipi autentici come il cemento della bowl su cui ho tirato una capocciata lo scorso anno. E quindi mi aveva detto o si fa dal vivo o nulla, a me Skype mi piglia male. Solo che Trieste non è mica dietro l'angolo e io non sono riuscito a organizzare la trasferta. Però in qualche modo abbiamo rimendiato e ora potete leggere anche la sua storia, buona lettura.
Ci sono tantissime differenze tra quello che è lo skate oggi e quello che era nei primi anni novanta o forse anche prima. Da noi a Trieste è arrivato verso la fine degli ottanta, quando io avevo all'incirca tredici anni e la nostra bibbia era
Public Domain della Powell Peralta (1989).
Non era ancora l'epoca di youtube, internet era un miraggio lontano e inimmaginabile e la nostra percezione dello skateboarding americano era limitata alla duplicazione dei vhs che - non s'è mai capito come - ogni tanto arrivavano pure nella nostra città in culo ai lupi del nord-est. Video duplicati fino alla morte con due videoregistratori, tanto che le copie finali degenerate a malapena erano visibili.
Non c'era la possibilità di avere una tavola professionale e gli skateboard che potevi comprare nei negozi di giocattoli erano fatti in legno di pistacchio da mezzo quintale e pieni di plastica sul tail o altri ammenicoli inutili tipo i rails, che poi - per evoluzione della specie - si sono fortunatamente estinti. Noi li smontavamo e tentavamo i nostri primi ollie, in compagnia degli amici che ancora si facevano le discese e basta con gli skate di plastica, tipo i gloriosi Gioca.
Poi aprì un negozio che vendeva le prime Powell e le prime Santa Cruz, però costavano troppo, intorno alle centomila lire. C'era pure la Vision ma non piaceva a nessuno.
Storicamente però bisogna riconoscere che la double-deck della Vision fu la prima tavola concepita per fare un sacco di tricks anche con il nose, o almeno quella era l'idea. A mio parere aprì la strada a quello che poi è stata la concezione dello skateboard moderno. In ogni caso, la Vision qua da noi non piaceva a nessuno e bene o male la popolazione a rotelle si divideva tra Santa Cruz e Powell.
Personalmente io ero nella falange Santa Cruz. Credo di aver usato una Powell - una Guerrero mi pare - solo una volta. E ricordo anche di averla rotta a metà nell'arco di un pomeriggio. 'Sticazzi, proprio una tavola della Powell, sempre stata antipatica.
Poi vennero altre marche. Fece impressione la Zorlac, con le grafiche di Pushead (quello che faceva le copertine ai Metallica) e nose e tail ad angoli sparatissimi e poi le tavole più moderne, ad esempio le Blind o le Plan B. Ma io rimasi sempre fedele alla Santa Cruz.
Comunque sia, i miei genitori non foraggiavano questa mia attività, io non avevo mai una lira e nell'arco della mia vita di skater in realtà ho comprato solo un paio di tavole. La prima fu una tavola che mi regalò mio nonno, una Natas Kaupas della S&M Airlines (che alla fine era sempre un marchio Santa Cruz) e poi poche altre. Di solito quando spaccavo una tavola trovavo sempre qualcuno che mi regalava la tavola vecchia dopo averla appena cambiata e a Trieste ero famoso per riuscire a ollare con tail che a volte non arrivavano a 10 centrimetri tanto erano mozzicati dall'uso.
Poi, intorno al '92/93, un negozio mi sponsorizzò e lì fu la pacchia e mi sentii pure un gran fico, anche se comunque continuai a non trombare per diversi anni.
Comunque...sto divagando.
Dicevo all'inizio che lo skateboarding in quegli anni era molto diverso da quello che è ora. Non saprei dire perché, forse è solo il pregiudizio istintivo di un rincoglionito semi-quarantenne.
Noi quando stavamo in giro con lo skate, lo usavamo in tutte le dimensioni urbane. Non era solo per fare i trick nello spot, noi ci andavamo in giro per tutta la città e lo usavamo anche come mezzo di trasporto. Io vivevo in collina e raggiungevo gli spots in downhill e poi giravo per la città ollando sui marciapiedi, grindando qualche scalino ogni tanto.
Poi passavamo da un posto all'altro spingendo il nostro stupido giocattolo di legno - molto spesso inseguiti dai vigili urbani - e quando capitava di trovare uno scalino di marmo particolarmente piacevole da grindare ci fermavamo finchè non ci cacciavano o arrivavano i vigili.
Quello che voglio dire che quando io uscivo in skate, stavo in skate tutto il giorno, in tutte le sue dimensioni.
Una cosa che mi ha colpito particolarmente di queste nuove generazioni di skaters è che oggi vedo i ragazzini con la tavola legata allo zaino e la usano solo negli skatepark o nei "posti giusti". Così mi viene da pensare che non stanno vivendo in pieno quella che è può essere la riappropiazione degli spazi urbani che fai con lo skate. Che vuol dire pure "con lo skate me ne vado in giro saltando scalinate lungo il percorso". Non è che all'epoca ci pensassi, sono riflessioni postume che mi faccio oggi.
E lasciamo perdere il fenomeno hipster e 'sti imbecilli che girano in città con i longboard. A cosa ti serve uno skate se non puoi neanche salire su un marciapiede? Nel contesto urbano per me non è neanche uno skate: è un veicolo che non funziona, che non è adatto.
Io non ho mai visto lo skate come uno sport, era un modo di essere. Infatti ho smesso quando non c'era più il giusto gruppo di amici con il quale fare cazzate e sfasciare panchine a colpi di slide o grind. Ad un certo punto, non c'era più l'attitudine hardcore che avevamo all'inizio, che poi si può riassumere in un "chiccazzosenefregadituttoPeròCorriVeloce".
I trick erano diventati troppo complicati e le canne una pigra ragione d'essere.