Le bugie e le storie
Che differenza c'è tra una bugia e una storia? In cosa differiscono le menzogne e i racconti? E perché le persone credono profondamente a storie che sanno o appaiono palesemente essere false? Una possibile risposta tra neuroscienze, filosofia e memorie personali.
Che differenza c'è tra una storia e una bugia?
Apparentemente nessuna. Dei bugiardi non si dice forse che "raccontano storie"? Così come a un bambino che non vuole dirci la verità si intima di "non raccontare favole?
La bugia, come una storia, è invenzione.
"Non inventarti storie!" grida al partner l'amante geloso quando si sente minacciato.
Depurate da qualsiasi pretesa etica, affiorando alla loro purezza ontologica, le bugie e le storie, il racconto e la menzogna, sono in fondo la stessa cosa: invenzione narrativa.
Nel film Inception di Christopher Nolan, Mr. Saito, un potente uomo d'affari giapponese, chiede al protagonista, Mr. Cobb, di svolgere un compito per lui. Dominic Cobb è uno specialista in grado di carpire informazioni e segreti dalla mente delle persone infiltrandosi nei loro sogni e allestendo al loro interno delle sceneggiature costruite ad hoc per poter accedere ai più remoti reccessi della mente.
Ma la proposta di Mr. Saito prevede un compito ben più arduo, difficile e pericoloso: non sottrarre un segreto, ma instillare nella mente di un uomo il germe di un'idea.
Il principale rivale in affari di Saito infatti è in punto di morte e suo figlio si appresta a ereditarne l'intera fortuna. Saito vuole perciò fare in modo che la mente di quest'ultimo venga contagiata dall'idea che la volontà del padre sia quella di disperderne l'eredità per dimostrare a se stesso e al mondo di sapersela cavare da solo, di poter costruire un impero con le sue stesse mani. In questo modo l'affarista giapponese metterebbe fuori gioco il suo unico concorrente, sgomberando il campo per i propri affari.
L'idea che Cobb deve instillare nella mente del figlio del rivale di Saito è allo stesso tempo una bugia, architettata ad arte, e una storia, quella del padre che chiede al figlio di dimostrare al mondo che è in grado di farcela da solo, senza alcun aiuto.
Anche in questo caso racconto e menzogna coincidono, sono la stessa cosa. Ed è solo se ci spostiamo su un piano etico che possiamo istituire una differenza tra la due azioni. È una menzogna quella storia che produce, volontariamente o involontariamente, un danno per qualcuno o qualcosa.
Eppure la differenza tra le due è talmente sottile che a volte è estremamente difficile distinguere tra l'una e l'altra.
Un giorno, quando frequentavo le scuole medie, tornai a casa dopo le lezioni e quando mia madre mi domandò com'era andata la giornata io risposi raccontandole che la professoressa di storia, una donna molto seria e un'insegnante davvero preparata, ci aveva raccontato della sua passione per le gesta di due rivoluzionari delle isole Cayman: Doing e Totot.
Questi due novelli Che Guevara guidavano una strenua resistenza contro le forze governative del noto paradiso fiscale, con l'obiettivo di liberare le isole dal governo corrotto e dai biechi interessi occidentali che strozzavano l'arcipelago.
Nonostante avessi raccontato sulla vicenda dei dettagli palesemente assurdi, tipo il coinvolgimento di sommergibili nucleari russi, la storia aveva una sua coerenza interna. Si basava su una sceneggiatura plausibile: quante volte gruppi rivoluzionari avevano spodestato i governi locali di paesi esotici per le più diverse ragioni?
Inoltre le Cayman sono un paradiso fiscale e, come la Cuba di Batista, sono al centro di molti interessi esterni, per cui per quale motivo anche su quelle isole non avrebbe dovuto soffiare il vento della rivoluzione se questo aveva soffiato a Cuba?
Infine, il fatto che avessi speso il nome della professoressa di storia per costruire la mia bugia le aveva dato una maggior autorevolezza e credibilità (alla bugia, non alla professoressa).
Il risultato fu che mia mamma si bevve la storia dalla prima all'ultima goccia. D'altronde internet non c'era ancora e per coprirmi da ogni possibile fact checking era bastato raccontare che i media non stavano coprendo la vicenda a causa delle pressioni internazionali volte a evitare che il movimento rivoluzionario acquisisse consensi presso l'opinione pubblica. Ed anche questo era un dettaglio più che verosimile.
Riuscii a reggere il gioco per un paio di settimane, inventandomi di volta in volta dettagli sempre più esagerati ma abbastanza credibili da non far cadere il mio castello di carte, accompagnando il tutto con la faccia tosta che solo un ragazzino può avere. Alla fine, durante un'udienza, mia mamma chiese conto della mia invenzione direttamente alla professoressa di storia.
Ciò che successe in seguito non è necessario che lo scriva, lo potete immaginare benissimo da voi.
Non so come si sia sentito Orson Welles dopo aver realizzato l'impatto che la sua Guerra dei mondi aveva avuto sul pubblico radiofonico americano. Ma sono piuttosto convinto che anche lui abbia provato, per un momento, quel misto di spasso, senso di colpa e immenso potere che ho provato io quando il mio gioco è stato scoperto.
Fu in quell'occasione che, per la prima volta in vita mia, fui davvero consapevole del potere che potevano avere le parole sulle persone che mi stavano intorno.
In La voce e il fenomeno il filosofo francese Jacques Derrida scrive di come la voce, pur essendo qualcosa di estremamente simile a un'estensione del nostro stesso corpo, abbia il medesimo statuto di un segno, ovvero di qualcosa che media tra noi e quanto ci circonda. Perciò nello stesso momento in cui la emettiamo la voce cessa di essere nostra, ci è già estranea e si presta a essere manipolata in questo senso.
La voce è quindi uno strumento performativo. Ciò che viene detto acquista una realtà concreta, esiste per chi lo ascolta come e non differentemente da qualsiasi altra entità sensibile.
Dopo quella mia prima bravata, molte altre volte, nel corso della mia vita, avrei potuto assaporare il dolce piacere di raccontare una storia palesemente falsa solo per poter godere dello sguardo incredulo del mio interlocutore che si scioglie nella credulità mano a mano che, dettaglio dopo dettaglio, l'idea che apparecchiavo per lui si faceva strada nella sua mente.
Tuttavia ho imparato anche che raccontare storie false comporta sempre conseguenze, tanto per me quanto per chi mi ascolta. Conseguenze che possono essere spiacevoli a volte. Per questo motivo mi sono costruito un freno etico, una sorta di sirena d'allarme, di salvavita che scatta quando mi rendo conto che il gioco si sta facendo troppo pericoloso.
Di solito si tratta di un dettaglio così parossistico da far perdere qualsiasi credibilità all'intera storia che sto raccontando, sbriciolandola in mille piccoli pezzi.
L'espressione di chi mi sta ascoltando in quel preciso istante è incredibilmente simile a quella di qualcuno che ascolta lo stridore delle unghie su una lavagna. Il frastuono dei frammenti della storia che perdono coesione e precipitano gli uni sugli altri come schegge di vetro sveglia l'ascoltatore dal sonno ipnotico in cui lo avevo precipitato e, sul momento, la reazione è veemente, quasi offesa, prima di sciogliersi in una risata a metà tra il sollevato e il risentito.
In un articolo uscito poco più di un anno fa su Nautilus, Jim Davies si chiedeva perché gli esseri umani si fanno trasportare da storie che sanno essere false?. Le storie sono come portali, finestre spalancate su un mondo possibile che diventa vero, reale, concreto come quello che riesco a far toccare con mano quando racconto una bugia architettata ad arte.
La nostra capacità di percepire come tangibili storie che sappiamo essere false, o che potremmo facilmente capire che sono tali, risiede nella realtà evolutiva del nostro cervello. Piccoli cambiamenti della nostra struttura cerebrale si sono sovrapposti gli uni agli altri come gli anelli di una corteccia abbracciano il cuore dell'albero. E come quelli si sono fusi in un insieme omogeno, senza per questo perdere i propri tratti distintivi.
Così, quando analizziamo il funzionamento e la struttura del nostro cervello, possiamo distinguere tra una regione più antica, quella che sta dietro e in cima, e una regione più recente, posta nel nostro lobo frontale.
The older parts of the brain evolved to see things, detect predators, manage emotions, and other, older cognitive skills. The newer parts of the brain are capable of reasoning and reflection.
Quando crediamo così tanto a una storia da farci trasportare da essa nei suoi universi finzionali e bugiardi la parte anteriore del nostro cervello, quella deputata alla capacità di ragionamento e riflessione, sa che quella storia non è reale. Ma tra le due è la parte posteriore che ha la meglio con la sua difficoltà a distinguere tra il reale dal fittizio, tra il vero e il falso.
Questo accade perché anticamente il racconto era il solo modo per organizzare il passaggio di informazioni tra un essere umano e l'altro. I sistemi di segni che oggi regolano il rapporto tra la finzione e la realtà non esistevano e i nostri antenati erano portati automaticamente a credere a quanto veniva loro detto.
Quando raccontiamo una storia, che sia vera o falsa, che sia una menzogna o un racconto, dobbiamo essere sempre consapevoli del fatto che c'è almeno una metà del nostro cervello, la più antica, che a quella storia crederà incondizionatamente.
Come esseri umani e narratori è dunque nostra responsabilità imparare a usare nel modo giusto il potere insito in ognuna delle nostre parole.