Anatomia di un viral

La scena del delitto

Ieri pomeriggio ho intercettato un tweet di @Wu_Ming_Foundt che si domandava il perché di un intenso flusso di traffico proveniente da Facebook e diretto a un post pubblicato lo scorso anno su Giap.

Si tratta della densa e approfondita ricostruzione che il giornalista Matteo Miavaldi ha scritto della vicenda dei due marò italiani detenuti in India dopo il conflitto a fuoco che ha portato all’uccisione di Ajesh Pinky e Selestian Valentine, due pescatori della regione del Kerala.

Da qualche tempo rifletto sulle logiche e le dinamiche che regolano la viralità dei contenuti sul web e questa mi sembra l’occasione adatta per fare un il punto della situazione e mettere nero su bianco alcuni pensieri che mi girano in testa da un po’.

Abbiamo un post pubblicato circa dodici mesi fa che, apparentemente senza alcuna spiegazione, torna a produrre traffico su un dominio attraverso la più popolosa delle piattaforme social. La prima domanda che ci si è posti, di tweet in tweet, nella lunga discussione che è seguita al cinguettio dei Wu Ming è stata “chi ha linkato per primo il post?”

Dopo alcune ipotesi siamo arrivati a individuare in questo post del profilo chiamato Giulia Valle, un account collettivo che fa capo ad alcuni attivisti napoletani (il cui nome è ovviamente un riferimento alla battaglia di Valle Giulia, il primo scontro di piazza tra studenti e Polizia della lunga stagione di lotte apertasi nel 1968).

Mentre scrivo, il link — pubblicato il 14 gennaio (quindi due giorni fa) — ha 214 condivisioni e lo stesso link, ripreso il giorno successivo sul suo profilo dall’attivista Italo Di Sabato, ne ha altre 39.

Purtroppo sia Di Sabato che Giulia Valle sono profili personali e non pagine e non dispongono dello strumento Insight che ci avrebbe permesso, contattandoli, di avere dati precisi sulla diffusione del link. In assenza di dati precisi possiamo ugualmente provare a fare qualche calcolo estremamente approssimativo.

Uno studio condotto da Stephen Wolfram sulla natura dell’amicizia su Facebook ha dimostrato come, in media, ogni utente di Facebook è collegato a circa 342 altri utenti. Ciò significa che, sommando i dati relativi alle due condivisioni (214+39), il link al post sui due marò è stato condiviso da 253 altri profili. Moltiplicando per la media degli amici di ogni utente otteniamo una portata stimata di 86.526 profili che potrebbero aver visto nella loro bacheca il link al post su Giap. A questa cifra andrebbero aggiunte tutte le altre potenziali condivisioni che il link avrebbe potuto generare.

Questo solo per avere un’idea della distanza che il post può avere coperto all’interno di Facebook. Disponendo dei dati relativi al numero degli accessi dalla piattaforma al post di Giap potremmo calcolare anche il clickthrough e quindi correlare condivisioni e aperture del link.

[edit 17/01 11:56] @Wu_Ming_Foundt mi comunica via twitter che gli accessi al post su Giap sono circa 24.000 in tre giorni. Questo significa che, sulla portata stimata di 86.526 profili raggiunti, il link è stato cliccato da circa 1 utente su 3.

Questo per rimanere ai dati misurabili. Ma che cosa ha reso possibile questa diffusione e, soprattutto, come mai un post così datato ha goduto di una nuova vita negli ultimi due giorni?

Sul tavolo del coroner

Da ormai molto tempo sappiamo che i contenuti digitali sono soggetti alle regole della coda lunga. Una teoria economica secondo cui, grazie al mix tra capacità di stoccaggio apparentemente infinita e strumenti di ricerca avanzata, negli ecosistemi digitali i contenuti e i prodotti hanno una vita più lunga di quella che avrebbero nel mondo materiale e possono conoscere inaspettati picchi di popolarità, anche a molti anni di distanza.

La popolarità che il post di Miavaldi ha conosciuto in questi ultimi due giorni conferma la validità della teoria della coda lunga, ma questa si limita a dare un quadro di quanto è successo ma non ne spiega in alcun modo le ragioni.

Io credo che una di queste sia da ricercarsi nel modo in cui è costruito il contenuto del post. Nel novembre del 2013 Annalee Newitz pubblica un post intitolato Viral Journalism and the Valley of Ambiguity nel quale propone una teoria della viralità che si basa sull’assunto che un contenuto, per diventare virale, debba presentare il più basso tasso possibile di ambiguità.

The Valley of Ambiguity, o una rappresentazione della viralità dei contenuti web

Newitz disegna uno schema di questa teoria che chiama “la valle dell’ambiguità”. Uno schema in cui due sono le tipologie di storie che tendono a diventare virali:

On one side of the diagram, you can see the most obvious genre of viral story: the meme, or the single, simple unit of information that we share because it’s funny or makes us feel good […] The same goes for viral journalism on the other side of my chart. These stories, like explainers, how-to guides, Mythbusters-style debunkery, and truth-telling investigative journalism, are in some ways the opposite of a stupid video or a LOLcat. They are about truth, rather than amusement

Ciò che accomuna questi due tipi di storie, dice ancora Newitz, è il fatto che

They are not open to interpretation.

Se proviamo a collocare la ricostruzione di Miavaldi nello schema proposto da Newitz vediamo chiaramente che questo trova posto sul crinale destro della valle dell’ambiguità, esattamente a metà tra il debunking a common mith (i marò non sono detenuti in India ingiustamente ma perché hanno commesso un reato nello svolgere il loro servizio) e l’investigation or analysis that reveals a hidden truth (la narrazione messa in campo dai media italiani per raccontare la vicenda è tossica perché si basa su una perizia i cui elementi sono fragili e infondati).

La teoria della “valle dell’ambiguità” ci serve a spiegare i motivi per cui il post aveva le potenzialità per diventare virale. Motivi a cui potremmo aggiungere la capacità che questo ha di incontrare una precisa tensione sociale che attraversa una porzione consistente di persone: ovvero il bisogno di opporre alla narrazione tossica una differente narrazione dei fatti che possa disinnescarla. E la capacità di intercettare una tensione sociale è un’altra delle chiavi che innescano la viralità.

Resta ancora aperta una domanda “perché proprio adesso?” Perché in questi giorni si è sviluppata una tensione sociale che ha reso il post di Giap essenziale per un così vasto numero di persone?

Una possibile risposta a questi quesiti potrebbe essere la notizia, circolata nei media italiani, che il tribunale indiano che sta celebrando il processo ai due militari italiani potrebbe far cadere le accuse di terrorismo che pendono sui Salvatore Girone e Massimiliano La Torre.

Ma al momento questo mi pare l’elemento del meccanismo virale più difficilmente analizzabile. Se avete elementi e ipotesi utili a chiarire questo punto potete segnalarmele nei commenti o sui social.

[edit 20/01 12:17 ho contattato i gestori dell’account Giulia Valle e ho domandato loro i motivi per cui avevano scelto di ripubblicare il post proprio la scorsa settimana. La risposta è la seguente: “spesso poi, soprattutto su facebook dove l’attenzione è “breve” e la propensione a leggere testi lunghi si contrae sempre di più -purtroppo- ci si ritrova ad osservare condivisioni di articoli di cronaca ormai vecchi di due anni, che spesso chi condivide nemmeno apre per leggerli, ma si limita al titolo, immagine, magari al commento pubblicato su dall’utente precedente. Questo per dire che spesso è un’usanza dannosa e che nasconde anche altro. In questo caso, invece, qualcosa di positivo c’è e lo evidenziavi anche tu nel post (la voglia di molti di “capire”, di andare oltre le notizie date dai media mainstream palesemente parziali e fuorvianti sulla “vicenda Marò”, etc..) Il motivo per cui quel contributo è stato ripostato ad un anno dalla sua pubblicazione su Giap (e già un anno fa lo condividemmo e apprezzammo!) è molto semplice: la vicenda è tornata sulle prime pagine dei giornali, quello è un contributo molto valido che anche ad un anno di distanza resta tale. Ho pensato potesse risultare utile farlo rigirare, per farlo leggere a chi non aveva avuto modo di farlo già”]

Il verdetto del giudice

Chi è dunque il colpevole in questa vicenda? A mio parere il colpevole è e resta il post e il modo con cui è stato progettato e scritto, circa dodici mesi fa. In quelle righe c’è un enorme potenziale che è stato capace di rispondere a un bisogno che attraversava una parte del corpo sociale in riferimento a una vicenda dagli aspetti ambigui e controversi che le versione ufficiale illuminava in modo troppo uniforme.

Condivisioni e tempistiche, in questo caso sono complici senza il cui apporto il crimine di viralità non si sarebbe potuto compiere. Ma il mastermind di questa vicenda resta il lavoro di Matteo Miavaldi.

C’è una morale o un insegnamento che possiamo trarre da tutta questa vicenda? Se c’è io credo che sia questa: non possiamo progettare a tavolino contenuti virali, anche conoscendo alcune delle regole che governano le meccaniche della viralità.

Possiamo cercare di capire e interpretare le tensioni sociali che attraversano la nostra realtà ma al di fuori di questo calcolo rimarranno sempre un certo numero di elementi che non potremo controllare.

È in questa irrealizzabile tensione al controllo che il mediattivismo ha il suo alleato più importante. Infatti per quante risorse si possano profondere nel mediascape contemporaneo per far circolare qualsiasi genere di messaggi ci sarà sempre qualcosa che sfuggirà alla nostra capacità di progettazione: ieri era un hashtag, oggi è stato un post, domani chissà.