Dal volontariato all'impresa culturale: gestire e organizzare la transizione
Una riflessione su come gestire la transizione dal volontariato alla logica di impresa nell'economia della cultura.
In un post di qualche tempo fa avevo parlato del mio coinvolgimento come influencer nella comunicazione di cheFare, un premio per la cultura che mette in palio 100.000 per il miglior progetto di cultura e innovazione sociale.
Al di là del premio messo in palio, ciò che colpisce di questa iniziativa sono i principi su cui è stata costruita, che dimostrano come il progetto abbia saputo interpretare i cambiamenti determinati nella società dall'avvento della cultura digitale.
Il riferimento all'open source e alla filosofia peer to peer, l'attenzione posta sulla capacità dei singoli progetti di fare rete e di raccontarsi con strumenti innovativi, l'accento posto sulla dimensione comunitaria e partecipativa dell'agire culturale e l'attenzione alla scalabilità sono tutti aspetti di grande innovazione che fanno di cheFare anche l'occasione per provare a mappare un universo, quello delle imprese culturali a vocazione sociale, che ancora rimane piuttosto sconosciuto.
Confrontarmi con questo progetto mi ha dato occasione per riflettere sulle dinamiche culturali che stanno attraversando la mia città, Bolzano, in questi ultimi mesi. Un primo spunto ho provato ad articolarlo su Franz e oggi vorrei riprendere il filo di quelle riflessioni.
Durante l'estate nel capoluogo altoatesino si è assistito a un lungo e intenso dibattito sul sistema di finanziamento della cultura. Il modello invalso per l'attività culturale a partire dagli anni '80 sul territorio bolzanino è stato quello dell'associazionismo diffuso, ovvero un modello basato essenzialmente sul volontariato finanziato ampiamente dalla pubblica amministrazione con un modello di contributi "a pioggia".
Si tratta di un modello estremamente democratico che premiava la partecipazione ma che aveva come effetto collaterale quello di creare tante piccole realtà fin troppo legate alla pubblica amministrazione, poco dialoganti tra loro e spesso in lotta per accaparrarsi il canonico "posto al sole". Inoltre il concetto di associazionismo diffuso e di cultura come risultato di un lavoro essenzialmente volontario hanno reso difficoltosa la creazione di un sistema sostenibile di professioni culturali e creative.
Questo fino a qualche anno fa. Oggi come oggi lo scenario è cambiato complice la crisi economica e l'avvento di nuovi modelli per la gestione dell'attività culturale. Quello dell'impresa culturale e creativa organizzata in forme che vanno dalla classica società al coworking, passando per le diverse forme di cooperazione, è un modello che mira a coniugare l'iniziativa privata con le esigenze del pubblico.
A fronte della graduale esternalizzazione dei servizi effettuata in risposta ai consistenti tagli nel bilancio, le pubbliche amministrazioni si sono trovate sempre di più di fronte alla necessità di confrontarsi con soggetti privati in grado di fornire prestazioni professionali, in un'ottica rivolta al mercato. Prestazioni che il modello dell'associazionismo diffuso non poteva soddisfare al 100%.
Preso atto di questo, va detto che l'amministrazione bolzanina non ha gestito questa transizione con la dovuta cautela e la necessaria trasparenza. Da qui l'aspro dibattito che ha infiammato le cronache cittadine e assunto spesso i toni aspri dello scontro (a volte anche dello scontro politico).
La domanda che ci si deve porre è se modelli di gestione dell'attività culturale come quello proposto da cheFare possano essere utili a gestire transizioni come quelle che sono emerse nel caso bolzanino. A mio avviso la strada indicata è senza dubbio molto interessante e potrebbe costituire un momento di riflessione assai utile per le pubbliche amministrazioni. Piattaforme digitali di questo tipo, quando sono sviluppate a partire da una profonda comprensione delle dinamiche culturali in atto, garantiscono prima di tutto una grande trasparenza dei processi.
In secondo luogo premiano, come detto in precedenza, la capacità di fare rete. Questo non significa, come spesso, mi viene fatto notare, che vince solo e sempre "chi ha più amici". Questa condizione premia soprattutto quei soggetti in grado di gestire con accuratezza la propria narrazione e le proprie relazioni sociali. Fare cultura, sia in forma imprenditoriale che volontaria, significa lavorare sull'aspetto relazionale, creare connessioni tra soggetti diversi, coinvolgere il territorio, raccontarsi con efficacia.
I profondi cambiamenti che stiamo vivendo in questi anni impongono sfide ambiziose per provare a ripensare i modelli consolidati, secondo voi quali potrebbero essere altri principi utili a gestire questa transizione?