True Detective dalla narrazione del realismo al realismo della narrazione

True Detective dalla narrazione del realismo al realismo della narrazione
![Start asking the right fucking questions](/content/images/2014/May/True-Detective-Opening-1.gif)
*Questo saggio contiene spoiler*

Di True Detective si può dire di tutto, ma di certo non si può dire che sia passato inosservato. Che lo giudichiate un capolavoro o che non vi abbiate visto null'altro che una raffinata impalcatura di fuffa lo show creato dallo scrittore Nic Pizzolatto ha lasciato un segno. Con buona pace dei suoi detrattori non penso che se ci trovassimo semplicemente di fronte a un prodotto scadente così tante persone si sarebbero scomodate a parlarne, bene o male che sia.

La mia impressione è che questa serie sia uno di quei prodotti che hanno la forza di marcare un prima e un dopo nel proprio ambito. Ed è per questo motivo che ha suscitato tanta attenzione, critiche ed entusiasimi.

Esattamente come Lost, che è forse la serie che più si avvicina a True Detective, pur rimanendone a una distanza siderale. Ma cosa intendo quando dico che questo show segna un prima e un dopo?

La serialità televisva americana, così come il cinema hollywoodiano classico di cui è erede, è una forma d'arte che ha un collegamento strettissimo con le strutture attraverso cui è prodotta. In questo True Detecitve rappresenta qualcosa di unico (o almeno per le mie conscenze è qualcosa di unico, se dovessi sbagliarmi correggetemi pure).

Unico perché in un panorama dominato da serie i cui cicli narrativi si snodano per 4, 5, 6 o anche più stagioni, True Detective adotta una forma antologica. Ogni stagione della serie è infatti stata pensata per essere autoconclusiva. Questa caratteristica ha un impatto diretto sulla costruzione della struttura narrativa di cui i repentini cambi di ritmo e le accelerazioni che compongono la serie sono l'effetto più evidente.

Le serie costruite su archi narrativi lunghi che si snodano per più stagioni solitamente hanno un andamento costante: partono lentamente per poi accelerare verso il finale, preparando il cliffhanger ovvero l'effetto di sospensione che serve a mantenere viva l'attenzione dello spettatore nei mesi in cui si prepara la stagione successiva.

Cosa ci sarà dentro qull'enigmatica botola sepolta in mezzo alla giungla, su un isola dove anche le cose più normali hanno contorni insoliti?

In True Detective questa progressione non può esistere, dato che la vicenda si esaurisce nel corso delle otto puntate che compongono la stagione e dunque i ritmi sono necessariamente diversi da quelli a cui siamo abituati. Tempi morti, accelerazioni, frenate brusche e spezzettamenti sono le caratteristiche più evidenti nella costruzione ritmica di True Detective.

Un secondo elemento che approfondisce la distanza con qunto siamo abituati a vedere in fatto di serie televisive è la dimensione spiccatamente autoriale di True Detective. La serie infatti è interamente scritta e diretta da Pizzolato e dal regista Cary Fukunaga. Al contrario delle serie a cui siamo abituati, dove la dimensione autoriale viene declinata nelle forme della produzione mentre la scrittura e la regia non sono un atto individuale, bensì collettivo.

Da soli questi elementi bastano a rendere True Detective un prodotto capriccioso, intrattabile, da maneggiare con una certa attenzione. Molte delle critiche che ho letto mostrano il proprio limite nel non riconoscere quanto queste particolarità portino True Detective lontano da quanto siamo abtuati a guardare.

Paragonato alla tradizione del quality drama d'impianto realistico True Detective scompare, ma il paragone è mal posto

Metterlo a confronto, per sminuirlo, con il retaggio della HBO, ovvero con il quality drama d'impianto realistico - che ha in The Wire il termine di paragone più ovvio - è un'operazione che non funziona e impedisce di cogliere l'essenza della serie. Paragonato a quella tradizione True Detective semplicemente scompare, ma il paragone è scorretto perché True Detective è un altro genere di narrazione e come tale andrebbe trattato.

Stesso discorso vale per il tentativo di incasellare la serie nell'ontologia dei generi: è un horror? è un noir? è un procedurale? True Detective ha elementi che provengono da tutti questi generi eppure non appartiene a nessuno di essi. Piuttosto lo possiamo collocare nel macrogenere chiamato puzzlebox fiction (fiction a puzzle). Ovvero quel tipo di narrazione che caratterizzava serie come The X-files e, appunto, Lost; show

based on the development of complex mythologies, and each rewarded viewers with small nuggets of revelation that provided limited answers to existing mysteries

per riprendere la definizione del genere data da Fredrik deBoer in un post che parte dalla delusione per il finale di True Detective ed esplora i limiti di questo genere di narrazione. Che risiedono proprio nella moltiplicazione dei misteri necessari a mandare avanti la trama e nell'impossibilità di spiegarli tutti in modo esaustivo e convincente.

Una critica che condivido perché nel finale la scrittura di Pizzolatto si fa più farragginosa e sfliacciata, frettolosa; e nella fretta vengono lasciate aperte alcune linee narrative (per me) troppo importanti per essere tralasciate.

In questi casi la delusione è un sentimento comprensibile, lo stesso sentimento che in molti provarono davanti al finale di Lost (che continua a essere il paragone più calzante). Però, allo stesso tempo, mi viene da pensare che lo scioglimento dei misteri non sia il punto centrale di questo genere di narrazioni. Piuttosto lo è il modo in cui i misteri sono costruiti e la libertà che la narrazione lascia allo spettatore di speculare su di essi.

Una libertà che nasce dalla scrittura, anche quando questa possiede una direzione precisa, e diventa una straordinaria leva di marketing grazie all'engagement che suscita tra gli spettatori, moltiplicando la narrazione nel gioco infinito della speculazione.

Ma sarebbe scorretto affermare che True Detective sia soltanto una macchina di marketing pensata e progettata per scatenare negli spettatori l'urgenza di risolvere il mistero. L'obiettivo dichiarato di Pizzolatto è quello di creare un racconto poliziesco dal respiro letterario.

Non mi interessa qui dichiarare il mission accomplished quanto provare a smontare il congengno narrativo di True Detective per capire come funziona ed evidenziarne alcuni momenti metatestuali.

Partiamo dall'inizio; il primo episodio della serie si apre con tre brevi inquadrature notturne: due uomini che camminano affannati nel buio, il fuoco di una torcia che si accende e si propaga, il totale di un incendio, dissolvenza in nero. Non sappiamo cosa sia successo, ma sappiamo fin da subito che qualcosa è successo e lo scopriremo di li a poco.

True Detective videocamera

Ciò che accade dopo, nelle immagini successive, è fondamentale per capire il meccanismo narrativo di True Detective. Lo schermo viene occupato interamente dall'immagine di un obiettivo fotografico che sta cercando la messa a fuoco, segue il primissimo piano di uno schermo digitale su cui campeggia in rosso la scritta "REC". Siamo così vicini da riuscire a scorgere i singoli pixel.

True Detective rec

Subito dopo vediamo Marty il personaggio interpretato da Woody Harrelson. È seduto nella stanza di un ufficio che vediamo solo in parte a causa delle veneziane semichiuse sulla vetrata alle sue spalle. Una scritta in sovrimpressione ci informa che ci troviamo nei locali della Criminal Investigation Division della polizia di Stato della Louisiana (Louisiana State Police CID) e che stiamo assistendo alla dichiarazione Martin Eric Hart. Lo stesso schema verrà ripetuto per introdurre Rustin "Rust" Cohle, il detective interpretato da Mattew McConaughey.

True Detective presentazione personaggi

Perché Pizzolatto e Fukunaga scelgono proprio queste tre immagini per cominciare a presentare il loro primo protagonista?

Le videocamere digitali hanno un ruolo ben preciso nel cinema americano postmoderno. Da The Blair Witch Project a Cloverfield sono l'espediente per ammantare la fiction con un velo di realisticità creando così un cortocircuito che è stato usato ampiamente nel genere mockumentary.

I due autori sembrano perciò volerci dire che quanto stiamo per vedere è reale o, meglio, vero, autentico. Accade realmente davanti ai nostri occhi. Ma cosa, di preciso, accade realmente davanti ai nostri occhi?

L'intera struttura narrativa di True Detective è basata sull'analessi, sul flashback. Ci sono due principali piani temporali attraverso cui la vicenda viene raccontata: il 1995, anno in cui ha inizio la caccia all'assassino di Dora Lange, e il 2012, l'anno in cui si svolgono le deposizioni e in cui la vicenda trova finalmente il suo esito.

Nei primi tre episodi della serie il racconto nei due piani temporali coincide, i fatti e le deposizioni di Marty e Rust sono la stessa cosa, corrono in parallelo. Ma a partire dal quarto episodio la scrittura di Pizzolatto comincia a far collassare questa struttura su se stessa.

Alla fine del terzo episodio, dopo una lunga serie di buchi nell'acqua, i due detective hanno individuato un sospetto, Reggie Ledoux, un cuoco di metanfetamine. Fino a quel momento il ritmo della serie è stato lento, compassato, a volte noioso, ma nel quarto episodio tutto accelera in corrispondenza con la svolta nelle indagini.

La struttura di True Detective fa collassare i piani temporali della narrazione attraverso l'uso del flashback e del montaggio alternato

Marty scopre che Leduox ha lasciato la Louisiana per operare in Texas e Rust, che in Texas ha lavorato sottocopertura come infiltrato nelle gang che controllavano il traffico di droga, elabora un piano per catturare il sospetto. Non si tratta di un piano legale e così, inesorabilmente, i fatti e le deposizioni che fino a quel momento erano state una sola cosa cominciano a scollarsi e a divergere.

L'apice di questo scollamento arriva poco dopo l'inizio del quinto episodio (nda gli utenti che hanno caricato su You Tube i video di questa scena non ne permettono l'incoroporamento all'interno del post, per questo linko qui il primo e il secondo).

Marty e Rust hanno individuato - grazie a uno stratagemma che comprende il rapimento del capo di una gang di biker del Texas - la zona dove si nasconde Reggie Ledoux, il sospetto che stanno cercando. La coppia di poliziotti si addentra attraverso la vegetazione in cui sono nascoste delle trappole esplosive fino ad arrivare ad una baracca.

Riparati dall'erba i due cominciano a muoversi, circospetti, verso la costruzione. Ed è proprio in quel momento che comincia. C'è uno stacco sul primo piano di Rust Cohle, il montaggio alternato ci ha riportato avanti, nel 2012. Il detective racconta agli agenti che lo stanno interrogando che lui e il collega hanno intenzione di ritirarsi e aspettare rinforzi "but ain't what happend".

Ma non appena i due iniziano a indietreggiare, racconta ancora Rust..."bang!"; è Marty a parlare ora, di fronte alla videocamera, ed è proprio questa la sua prima parola: "bang". Segue la descrizione del fuoco a cui i detective vengono sottposti, un fuoco intenso, serrato, il sospetto sembra avere una qualche specie di arma automatica.

Un fucile così potente da sbriciolare il tronco di un albero. "Ta-ta-ta-ta" Rust imita il suono sordo e costante dell'arma mentre mima con le mani il movimento semicircolare che accompagna il tiro..."heavy shit".

![True Detective Heavy Shit](/content/images/2014/May/True-Detective-HeavyShit.gif)

Questo è il momento in cui la scrittura di Pizzolatto porta il flashback al massimo delle sua possibilità.

Infatti la scena che vediamo svolgersi nel 1995 non ha nulla a che vedere con quanto Marty e Rust raccontano nel 2012. I due infatti si avvicinano indisturbati alla baracca e la perquisiscono a pistole spianate, trovandovi Ledoux. Dopo averlo ammanettato nello spiazzo, Marty prosegue la perquisizione nella rimessa mentre Rust sorveglia il sospettato e intima l'alt al suo complice, appena uscito da un terzo capanno.

Nella rimessa Marty troverà due bambini scomparsi e, in preda alla rabbia, fredderà Ledoux con un colpo alla testa.

Rust, resosi conto della situazione, reagisce in fretta e aiutato dal suo compagno allestisce la scena che abbiamo appena visto raccontare. Toglie le manette a Ledoux per evitare che ne porti i segni e sparge colpi di fucile automatico tutt'intorno alla scena del crimine. La lunga sequenza della morte di Reggie Ledoux si conclude con il lento ritorno alla normalità dei due detective, acclamati come eroi.

Come abbiamo visto, per tre episodi, c'è stata una profonda corrispondenza tra i fatti e il racconto. Ciò che entrava a far parte della deposizione sotto l'occhio garante della videocamera era anche ciò che era realmente accaduto. Ma a partire dal quarto e, definitivamente, nel quinto episodio i piani temporali collassano e tra essi non esiste più alcuna corrispondenza. Addirittura, nel gioco di scambi che il flashback instaura attraverso il montaggio alternato, le sequenze temporali del racconto e dei fatti si scambiano di posto e la prima anticipa la seconda dando trasformando la sequenza in una composizione ad anello..."time is a flat circle", mormora Ledoux prima di morire.

Dunque se anche di fronte alla più oggettiva delle istanze di registrazione, quella incarnata dall'obiettivo della videocamera, la realtà dei fatti crolla miseramente che cosa resta? Null'altro che il racconto e la narrazione.

Non esiste altra realtà al di fuori di quella che puoi raccontare, sembra volerci dire Pizzolatto. Non c'è realismo, se non il realismo della narrazione ed è a partire da questa presa di coscienza che lo show sprofonda, da qui fino all'epilogo, nel territorio del fantastico e dell'horror.

Sembra che Pizzolatto ci stia dicendo che non esiste altro realismo che non sia il realismo della narrazione

Se non si individua questo meccanismo e non se ne scopre il funzionamento si fallisce completamente nel capire l'intero progetto che anima la scrittura di True Detective e anche la sua portata metanarrativa. La serie infatti mette alla prova non solo le sue strutture diegetiche, ma anche il retaggio dell'emittente che lo ha messo in onda. Lo stesso retaggio a cui molti critici hanno provato a paragonare True Detective mancandolo clamorosamente il colpo. I veri detective non sono quelli che si comportano come nella realtà, ma sono piuttosto quelli che appaiono nella realtà della narrazione.

E con questa considerazione nel mirino possiamo fare chiarezza su un altro aspetto che ha suscitato un vespaio di critiche alla serie: i monologhi e la filosofia senza speranza di Rust Cohle, definiti una forma di "profondità simulata".

Questo potrebbe essere vero se quei dialoghi li si legge sotto la lente d'ingrandimento del realismo, ma dal momento che abbiamo visto come Pizzolatto decostruisce quell'istanza per sostituirla con il regno del puro racconto le carte in tavola cambiano. Cambiano perché Rust è l'espressione più cristallina del realismo della narrazione, l'affabulatore per eccellenza. L'uomo che ha imparato a raccontare(si) storie a dieci anni per combattere la noia di una vita in Alaska, sopraffatto dal gelo e dalla bellezza del suo cielo notturno.

La spietata autocoscienza di Rust non è un modo per condurre lo spettatore di fronte all'abisso dell'abiezione e del male senza mai davvero avventurarvicisi dentro. Piuttoso a me pare una forma, criticabile ed estrema, di ironia postmoderna. Non un modo per avvicinarsi al male, quanto un modo per allontanarlo ed espellerlo. Al punto che di fronte al male assoluto, allo spalancarsi della hellmouth che prelude al confronto finale con l'assassino, Rust rimane impietrito, non sa più riconoscere il male perché ha passato una vita ad anestetizzarsi da esso. Pagherà così a caro prezzo la sua tagliente ironia.

È in questo dominio del racconto che True Detective prova a realizzare il suo respiro letterario; alla forza della narrazione, coi suoi meccanismi metatestuali, e alle particolarità produttive dello show si aggiungono il senso di tensione e di minaccia che trasuda dalle immagini, una recitazione di altissimo livello e la descrizione di una Louisiana in cui i personaggi oscillano sempre tra la civiltà e il cuore primitivo di questo territorio.

Sono tutti elementi che, nonostante alcune imperfezioni anche vistose che rendono frettolosi e soltanto abbozzati certi passaggi del racconto (ad esempio la linea narrativa che conduce alla potente famiglia Tuttle e viene lasciata aperta, forse in vista della seconda stagione), rendono True Detective un'esperienza degna di essere vissuta.

Per capire se e quanto True Detective inciderà sul panorama della serialità televisiva dovremmo probabilmente aspettare la seconda stagione. Sarà questa l'occasione per capire come Pizzolatto farà evolvere un prodotto refrattario a facili classificazioni. A noi spettatori non resta che aspettare.